Proviamo a renderla normale

Le occasioni della vita mi hanno dato la possibilità di conoscere persone di diverse condizioni economiche, sociali e culturali, ed è probabilmente una delle maggiori fortune che occorsami. Sorte felice che cerco di coltivare, continuando a ricercare il confronto con loro. Il caso, poi, alle volte vuole che quello riesca ad avvenire congiuntamente fra situazioni diverse, come m’è capitato un paio di giorni fa.

Un’amica brava e di buona famiglia borghese (e non c’è alcuna ironia in questa definizione), uno un po’ meno avvezzo alle cose del mondo al di fuori dell’orizzonte della sua quotidiana esistenza e io ci siamo ritrovati a parlare di Unione europea. Il miglior traguardo raggiunto dalla politica internazionale nel continente, per lei, un affare tutto sommato non buono per lui, se non proprio dannoso. «Perché dici così?», chiede lei. «E i settant’anni di pace? La possibilità per le persone e per le imprese di avere uno spazio più ampio in cui muoversi? La stessa facoltà di girare, per lavoro, per studio o per piacere, in tanti Paesi differenti?», aggiunge, quasi stupita della freddezza dell’altro. «Mah, non saprei», spiega lui, «la pace l’hanno avuta pure altri che non sono entrati nell’Ue, il mercato aperto è servito per mettermi in concorrenza con più persone, e magari rimetterci qualcosa, e quanto alla possibilità di girare per l’Europa sarà un vantaggio per chi può e sa; io a stento parlo l’italiano e mi sento straniero appena esco dalla provincia».

Voi ora proteste dirmi che, insomma, il problema è suo, del mio amico, che non ha strumenti, competenze e conoscenze per competere in un mondo più aperto. E sarebbe tanto vera quest’analisi da risultar banale e superflua. Perché lo sa anche lui che difetta di tutto quello. Ma sa altresì di esistere, di avere bisogni e necessità e di dover faticare di più dell’amica per soddisfarli. In tutto questo, sa (o crede di sapere, ma le due circostanze non differiscono di molto) che se gli aumenti il numero dei concorrenti, per lui crescono le difficoltà, mentre per quelli bravi, che sanno le lingue e conoscono il mondo, magari, aumentano di pari passo le opportunità. Però lui non è fra quelli; come evitare che si senta minacciato?

Perché  questo rischia di essere un tema tralasciato nel racconto dei e per i migliori che dell’Ue ci siamo fatti e ci hanno fatto negli ultimi anni. E deve essere ormai un argomento ineludibile se persino un europeista di convinta fede come Enrico Letta arriva a dire, come ha fatto in un’intervista al Corriere della Sera dello scorso giovedì: «Erasmus è sicuramente un’esperienza felice, ma è anche il simbolo dell’elitismo dell’Europa. Questo è un concetto centrale nel dibattito europeo di oggi, perché l’Unione viene vista da larghe fasce di popolazione come un’istituzione fredda, che parla solo ai vincenti, ai cosmopoliti, a coloro che sono contenti della globalizzazione perché hanno studiato, viaggiano, conoscono altre lingue. Quelli che hanno fatto l’Erasmus».

Volete pensare a un racconto europeo per quanti non l’hanno potuto, saputo o voluto fare quell’Erasmus? Volete provare a spiegare, se è così, perché un’Europa più unita serva anche a loro? Volete provare a dire pure a questi che se ne sentono esclusi che l’Ue è casa loro, se è vero, e che gli conviene che sia forte e coesa, oppure vi basta continuare, dall’alto dei vostri studi e di quello che avete imparato, o credete di aver appreso, a ritenerli bifolchi ignoranti, incapaci di capire le dinamiche complesse e gli scenari complessivi?

Così, per sapere, visto lo spirito auto-celebrativo che tutti ci anima in questa giornata.

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