E non sappiamo cosa sia

«La polvere il sangue le mosche e l’odore/ per strada fra i campi la gente che muore/ e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è/ e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perché» Fabrizio De André, Tutti morimmo a stento, Terzo intermezzo, 1968. Io di parole migliori non ne ho, né riuscirei a trovarne, semmai un giorno volessi farlo. Ma di più precise sì: quelle di Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia.

«Bambini che sognano di morire per poter andare in Paradiso e avere così un posto dove poter mangiare e stare al caldo o che sperano di essere colpiti dai cecchini per arrivare in ospedale e magari poter scappare dalle città assediate. Genitori che preferiscono dare in spose le proprie figlie ancora bambine perché non possono occuparsi di loro, generandone la disperazione che in alcuni casi le porta addirittura al suicidio. Bambini lasciati orfani della guerra che pur di avere qualcosa da mangiare si uniscono ai gruppi armati». Così spiega, commentando la ricerca dell’organizzazione non governativa di cui guida il braccio italiano sui minori coinvolti nel conflitto siriano, a proposito della situazione che lì si vive ormai da sei anni. Leggetele di nuovo quelle sue parole, e poi una volta ancora. E adesso, datemi con disprezzo del «buonista» se proprio non riesco a reagire vomitando tweet odiosi almeno quanto pieni d’odio come Salvini o stendere reti e filo spinato come Orban.

Perché quando parliamo di guerra, noi non sappiamo cosa sia. Perché se un bambino sogna di morire pur di non vivere più nel posto in cui sta, allora è peggio, molto peggio dei peggiori racconti che ne abbiamo. E io non so dire che non mi riguarda, anche quando non so cosa si possa e debba fare qui e ora. Ma che siamo tutti coinvolti e in un certo senso responsabili, noi che dormiamo tranquilli e al sicuro, è certo; consideriamo la realtà di quei bambini, ogni volta che diciamo «non possiamo accoglierli tutti».

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