Ci chiamiamo tutti Antonio

Forse vi ricorderete di quella scenetta in cui Totò, parlando con un amico, gli racconta d’aver incontrato un tale che, scambiandolo per un certo Pasquale, lo aveva aggredito, ingiuriato e preso a schiaffi. E all’interlocutroche che, stupito, chiede cosa avesse fatto per reagire a quegli attacchi, lui rispondeva: «Niente, e che, mi chiamo forse Pasquale io?». Ecco, noi, al contrario, ci chiamiamo tutti Antonio, Antonio Forchione, 55, operaio, torinese.

La storia l’avrete di certo letta sui giornali, ma io provo a raccontarvela ugualmente, per come l’ho percepita. Vivere in Piemonte, infatti, è anche quello, sentire i nomi delle fabbriche e riconoscerli, quali luoghi e avvenimenti. Pure per la Oerlikon Graziano, la ditta per cui lavorava Antonio, è così. È l’insegna rossa dello stabilimento di Cervere che vedi dall’A6, è il sito di Sommariva Perno o quello di Garessio e delle lotte dei suoi dipendenti negli ultimi anni ed è, appunto, la fabbrica di Cascine Vica, frazione di Rivoli, alle porte di Torino, dove Antonio era operaio. Era, perché dopo il trapianto di fegato, l’azienda ha deciso di licenziarlo «per sopravvenuta inidoneità fisica». Poi la proprietà svizzera ha annunciato di averci ripensato e di volerlo riprendere, ma per brindare, aspetterei che si concretizzino quelle che per ora sono solo parole, e che nell’incontro con i sindacati avuto ieri non hanno portato al reintegro sperato. In ogni caso, quanto accaduto spiega per quale motivo ci chiamiamo tutti Antonio: perché a tutti può accadere quello che sta succedendo a lui.

Hanno ragione i suoi colleghi a scioperare, hanno ragione i sindacati a mobilitarsi e hanno ragione quelli che parlano di errore della dirigenza e della proprietà della Oerlikon. Ma non basta. Quello che avviene lì è il fenomeno, la conseguenza di una tendenza generale. Io mi auguro che l’annuncio di reintegro vada a buon fine o, in alternativa, che la giustizia a cui già s’è rivolto dia ragione a Forchione e alla sua battaglia di civiltà, ma il senso di quella lettera recapitatagli è ben più ampio. Dice, chi firma quel documento, che loro sono i padroni, e noi non possiamo più farci niente. Perché le conquiste dei decenni di lotte operaie sono vanificate, perché è già tanto se un lavoro l’abbiamo avuto, perché, insomma, se siamo inidonei, che colpa ne hanno loro?

Quella stessa fabbrica in quella medesima Torino avrebbe agito così quarant’anni fa? E perché oggi può farlo, al di là di come andrà a finire la vicenda in questione? Perché abbiamo abbassato la guardia, perché ci siamo ridotti ad accettare quello che non avremmo dovuto, perché per decenni abbiamo subito il ricatto della disoccupazione usata come «esercito di riserva», sì, la citazione è giusta, per farci ingoiare arretramenti sempre più importanti sul piano dei diritti e delle tutele.

Questo è oggi: trent’anni di lavoro e poi niente, ti buttano via col marchio della “inidoneità”.

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