Non fategli questo torto: non è cambiato Renzi, ma il vostro giudizio quando ha perso

«Il primo Renzi, in fondo, era questo. Una salutare, energica boccata d’aria fresca, nelle stanze polverose di una nomenklatura esausta e delegittimata. La grande speranza che incarnava stava proprio qui: la volontà di rottamare il vecchio e di costruire il nuovo, ridando dignità alla politica e modernità alla sinistra. Quella speranza è via via scemata, in una routine di governo in cui i grandi disegni riformatori hanno lasciato il posto ai piccoli bonus elettorali. La volontà di potenza ha lasciato il posto alla voluttà del potere. Le ragioni della buona politica hanno lasciato il posto alle pulsioni dell’anti-politica. Un alternarsi continuo tra la cultura del “ciaone” (vedi il referendum sulle trivelle) e il “grillismo di Palazzo” (vedi la sortita sui vitalizi)». Così Massimo Giannini, su La Repubblica di ieri, lunedì 13 febbraio.

E bisogna dire che l’ultimo conduttore di Ballarò e firma di peso nel quotidiano fondato da Eugenio Scalfari non è certo annoverabile fra i sostenitori “a prescindere” di Renzi, visto che non sono mancate fra i due occasioni di contrasto anche dure (c’è chi dice fino a spiegarne l’uscita dalla Rai). Due giorni prima, però, sabato 11 febbraio, sullo stesso foglio un’analisi di Roberto Mania era lapalissianamente titolata: «Jobs Act, bilancio amaro. Aumenta la flessibilità ma i disoccupati non calano». Che è un po’ quello che i critici dicevano ai tempi in cui, da quelle medesime colonne, non veniva altro che la ripetizione del mantra “dagli al gufo!”. O ancora, potrei ricordare le parole di Francesco Manacorda, appena un mese fa, il 17 gennaio, sempre per il giornale diretto dal mai critico del renzismo realizzato Mario Calabresi, che spiegavano come Renzi avesse per mesi non guidato un governo, ma condotto «una sorta di campagna elettorale permanente che aveva per l’appunto come obiettivo il referendum costituzionale». Tesi, appunto, sostenuta da quanti non si piegavano al coro osannante del leader vincente. Ma è davvero cambiato così tanto Renzi? No, ha solo cambiato ruolo. E di conseguenza, in molti han cambiato il giudizio su di lui.

Nulla di nuovo. «Vergin di servo encomio/ e di codardo oltraggio», mi vien voglia quasi di difenderlo, l’ormai altresì quasi dimissionario segretario del Pd, per il quale spesso proprio di bonapartismo s’è (e ho) parlato. Dopotutto, pure Napoleone stesso, ed era a ciò che riferiva quei versi il Manzoni, subì un simile rovesciamento di opinioni e commenti. Per dar solo un saggio, i giornali francesi, ai tempi della sua fuga dall’Elba, mutarono progressivamente toni e temi nel racconto del suo viaggio verso Parigi. Prima lo derisero quale evasore, poi lo temettero come pericolo, infine lo osannarono per il trionfo raggiunto. Almeno per i cento giorni che lo tennero lontano dalla polvere, assaggiata nuovamente la quale, l’identica stampa riprese a vilipendere lo sconfitto.

Dovesse di nuovo Renzi vincere, ritornerebbero i toni aulici e i peana al grande riformatore.

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