Di satira, sciacallaggio e altre contraddizioni borghesi

La premessa a tutto quello che sto per scrivere è che per me la libertà di espressione è un diritto non in discussione. Lo difendo continuamente, contro chi vuole incarcerare uno scrittore per aver detto che si possono tagliare delle reti, contro quelli che pensano che chi scriveva della necessità di sovvertire l’ordine costituito nei fatti stesse armando la mano dei sovversivi, contro quelli che dicono che «criticare il sistema significa attaccare il Paese». Certo, parafrasando Tallentyre, al secolo Hall, che parafrasava Voltaire (poi su Voltaire ci torno, promesso), non darei la vita per il diritto di Salvini a dire le scempiaggini che dice, ma insomma, in linea di principio, non impedirei a nessuno di esporre la sua opinione. Nemmeno se, esercitando quel diritto, potesse guadagnarci qualcosa.

E allora, mi chiedo, dopo la vignetta di Charlie Hebdo, e non è la prima, sui morti per terremoto, perché la loro è considerata satira e quello di Salvini «sciacallaggio»? Perché un disegnatore macabramente ironico che mette gli scarponi da sci alla morte per un pugno di copie è accettabile e un politico al limite del comico che indossa i moon boot in televisione per qualche voto in più no? Mi si potrebbe rispondere che quella dei vignettisti era una provocazione sui problemi dell’Italia, ovvio. Ma quindi perché a tutti gli altri che quegli stessi problemi hanno denunciato (e sì, probabilmente in maniera strumentale, ma ancora è da dimostrare che i satiri parigini non lo facciano solo perché quello è il mestiere che si sono scelti) nelle medesime ore è stato chiesto di fare «silenzio per rispetto dei morti»? A me quel disegno, come quello sulle vittime di Amatrice fatte lasagna, ha fatto male allo stesso modo in cui fece al tempo leggere «forza Etna» o «dai Vesuvio» sui cavalcavia e negli stadi: perché per loro dovrei provare qualcosa di diverso da quello che provavo, e provo, per chi fece quelle scritte?

In una discussione a mezzo social mi è stato obiettato che la differenza fra le due situazioni la fanno le leggi, che per la satira prevedono un’estensione maggiore di quanta ne riconoscano a chi fa politica e che comunque stabiliscono dei limiti, come il negazionismo dell’olocausto o l’istigazione all’odio razziale, tutelando il principio del rispetto dell’altro. Bene, ma non basta e non c’entra. Perché le leggi sono sempre parziali rispetto al diritto e, soprattutto, sono legate al periodo e alla società in cui vengono redatte. Non era istigazione all’odio razziale separare i posti sugli autobus negli Usa degli anni Cinquanta, non lo era organizzare gli “zoo umani” nell’Europa del XIX e XX secolo. Eppure, se avessimo chiesto a quegli europei o a quegli americani, si sarebbero tutti detti strenui e convinti difensori delle libertà e dei diritti borghesi figli dell’Illuminismo (e potrebbe pure darsi il caso che lo fossero davvero, ma anche su questo ci torno, tranquilli). E poi, le leggi potrebbero essere opera di un legislatore che ha le stesse qualità e formazione dei tanti che vomitano nell’Internet copiose e folli oscenità; perché dovrebbero di per sé stesse essere in grado di dipanare e chiarire una materia tanto intricata e, per sua natura, contraddittoria?

L’analisi compiaciuta sulla razionalità dei princìpi della rivoluzione borghese è una cosa che può andar bene al caldo dei tavolini di un caffè letterario, ma se disegni la vignetta di Charlie Hebdo davanti ai congiunti delle vittime o parli come Salvini per spiegare che il freddo che patiscono nelle tende è colpa di quelli che soffrono il sole del Darfur c’è il rischio che la tua gola incontri la stretta delle loro dita o i tuoi zigomi la durezza delle altrui nocche: e in quel caso, non riuscirei a dar tutti i torti a quelle mani.

Ah, quasi dimenticavo: Voltaire e l’Illuminismo. Impossibile non esserne sedotti, vero? L’emancipazione di quelli che non erano nobili, il senso di libertà, uguaglianza e fraternità che quelle idee esprimevano e promettevano, «l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità», per dirla con Kant, le mirabili e sagaci pagine di Candido, Zadig, Micromega o L’ingenuo (che, ça va sans dire, era un selvaggio). Già. Ma quei lumi erano accesi solo per chi aveva i soldi necessari a pagare il petrolio che li alimentava, e Voltaire, beh, Voltaire era un convinto “poligenista” – modo elegante e colto per dire “razzista” –, con tanto di gerarchia dei “tipi umani”. Dal suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni: «solo un cieco può mettere in dubbio che i bianchi, i negri, gli albini, gli ottentotti, i lapponi, i cinesi e gli americani siano razze completamente diverse».

Gliele fareste dire oggi quelle parole?

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