Quel politicismo con non risponde alla domanda di politica

«Se gli elettori ti dicono “no”, tu ne devi prendere atto, non puoi andare avanti perché non hai a quel punto l’autorevolezza, ed è giusto rimettere il mandato, da parte del premier ma anche con la consapevolezza dei parlamentari. Tolgo l’alibi a quelli che pensano alla propria sedia, io non penso alla mia sedia». Così Valeria Fedeli, appena una quindicina di giorni fa negli studi de L’aria che tira, su La7. Io non ho mai pensato che il Governo si dovesse dimettere, lei argomentava come dovessero farlo pure i parlamentari, ma in fondo, con ogni evidenza, non ci credeva affatto.

Dovevano lasciare tutti, invece, a parte Renzi, gli altri hanno raddoppiato. Ed è perfido l’elogio che molti in queste ore rivolgono alla coerenza dell’ex presidente del Consiglio, che suona implicitamente di biasimo a chi non ne mostra altrettanta, per quanto più volte e solennemente le medesime parole del leader aveva fatte proprie. Ora, tentando di ritornare seri (e lo so che è difficile pensando ad Alfano agli Esteri), il governo Gentiloni è nato e, ottenuta la fiducia parlamentare, sarà totalmente legittimato e pienamente titolato a proseguire fin che questa non venga a mancare o termini la legislatura, perché, nel sistema costituzionale che abbiamo riconfermato con il voto, gli esecutivi nascono così, non sono «eletti dal popolo», né possono essere «a tempo», concetti entrambi figli della stessa demagogia.  Però, questa mia visione sull’esecutivo nascente è il frutto d’un inutile ragionamento politicista. La politica, quella reale, quella viva, usa ormai lingue diverse, che io, debbo ammetterlo, comprendo sempre meno. Domenica 4 dicembre, non sono sicuro che il messaggio mandato dal Paese al Palazzo parlasse di difesa dei riti e delle logiche del costituzionalmente valido o di valorizzazione delle prassi istituzionali corrette. Per quanto, sinceramente, non so dire cosa dicesse.

Sto dicendo che ho sbagliato a votare? Nient’affatto. Non è quello il punto e non è così semplice la questione che si pone. Continuo a credere che con la riforma Boschi, i problemi in caso di una vittoria dei “populisti”, come comodamente li chiamiamo per non dover affrontare la fatica di capire quanto sta accadendo, sarebbero stati maggiori di quelli che potremmo avere ora, e rifarei la scelta che ho fatto.

Quello di cui parlo e che mi preoccupa è un fenomeno più lungo e profondo, che radica le sue espressioni alternativamente nell’astensione e nel respingimento tout court del sistema. All’inizio della stagione renziana, non pochi hanno pensato di poter sopperire alle istanze di quel movente carsico cambiando Letta con l’allora neo segretario del Pd. Qui il senso del politicismo che intendevo, quello che vede discontinuità dove non se ne avvertono per le politiche percepite. Il risultato, contrariamente alle attese, è stato che invece quel fenomeno è cresciuto, e ora è forte più di prima; un esito imprevisto, che smonta e scoraggia gli analisti che già s’affannano a dire che con il “sì” si sarebbe superato l’impasse, lasciando continuare «l’azione riformatrice» del renzismo, dato che precisamente con essa in vigore (se non quale causa, almeno per contesto) qui siamo giunti.

No, non c’entra il “no” di merito (che ridarei ancora, perché l’architettura è più importante dei sedicenti architetti), ma il valore intrinseco che in esso hanno riconosciuto i tanti che vi si sono avvicinati. E di nuovo, non parlo di sigle, protagonisti o «accozzaglie» (termine tecnico, immagino): parlo dei diciannove milioni e mezzo di elettori, di un popolo, che ostinatamente ci si impegna a ignorare, pensando che alle sue domande e alla frammentazione di quel “rappresentato” si possa rispondere con la ricomposizione delle rappresentanze.

È qui il limite che scorgo e il problema che avverto. Ma non ho soluzioni da indicare.

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