Di speranze, ossi e bastoni

«Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di se stesso. Era come… due persone in una. Da una parte, la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita». Bello, vero? Oggi, a quelle immagini alate si è sostituito il senso intrinseco nel «meglio succhiare un osso che un bastone».

Tutta lì la differenza, e anche la colpa delle stagioni che sono seguite dal sogno di cui parlavano le parole di Gaber alle miserie a cui rimandano quelle di Prodi. Certo, con un osso riesci a farci quel brodo che dal bastone non potresti trarre, ma non era, la nostra, la parte che parlava di speranze e futuro? No, non mi sto riferendo al voto di domani: fate quello che credete giusto, per me ho già detto abbastanza in merito. Sto pensando in generale, ragionando sul dove ci ha condotti questa continua tensione a un malinteso “concretismo”. Ci siamo rassegnati al «così è, ed è meglio che niente», quando appena pochi anni fa, qualche decennio al massimo, cantavano le nostre idee in faccia al mondo che s’ostinava a volerle illusioni. Abbiamo scambiato l’afflato al sogno con la prosecuzione dello status quo con mezzi social, e qualcuno ha saputo pure definirlo «cambiamento».

È questo il peccato più grande che tutti abbiamo commesso o non contribuito a evitare. La resa all’ineluttabilità della realtà attuale, a quel «non ci sono alternative» che da anni, continuamente, consolida il suo potere di persuasione e convinzione. Così, piano ma inesorabilmente, si è scivolati verso la stagnazione, la “pace borghese”, si sarebbe detto un tempo, in cui, e al massimo, puntare a far parte della maggioranza per pensare di poter decidere il nome dei governanti, ché il verso del governo è già stabilito per sempre.

Nostalgia? E di cosa? Per quale luogo non vissuto dovrei provare il dolore del ritorno? Ancora con le parole di Gaber, più vere alla luce dei fatti e dei tempi passati: «No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare…come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte, l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra, il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo».

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