Come lo prende il tè «un pericolo per la democrazia»?

Con un grande inchino, il primo chiede: «The scum of the earth, I believe?». Parimenti teatrale e omaggiante, l’altro risponde: «The bloody assassin of the workers, I presume?». Queste le parole che David Low, in una vignetta, icasticamente titolata Rendezvous, sull’Evening Standard del 20 settembre 1939, mette in bocca a Hitler e Stalin, cerimoniosi e armati sul cadavere della Polonia, per dar voce allo stupore britannico in seguito all’accordo fra la Germania nazista e la Russia sovietica. “Ma come”, sembrava chiedersi lo storico cartoonist, “se ne dicevano di tutti i colori, minacciando di darsene di santa ragione, e adesso siglano un patto di non belligeranza e collaborazione?”. Già, la realpolitik, direbbero i pragmatici del potere. O l’ipocrisia dei potenti, penserebbero i senza potere.

Ora, quei tratti di matita disegnavano i sentimenti intorno ai fatti che andavano componendo lo scenario peggiore della storia recente, e non solo. Qui, per fortuna, siamo al massimo al ritorno delle impressioni sugli accadimenti in forma di farsa, tuttavia i toni usati e le parole spese proprio a quell’epoca e a quei nomi spesso facevano riferimento. Sui giornali e per l’internet, si sono sprecati i paralleli fra Trump e i peggiori esempi di dittatori e autocrati, da quelli della contemporaneità ai protagonisti del passato. E pure la stessa candidata democratica, la sua rivale Clinton, l’ha definito «pericoloso», mentre Obama ricordava come in ballo ci fosse non la presidenza, ma la democrazia stessa. Adesso che Trump ha vinto, si dicono disposti a collaborare. Con chi? Con un tale a cui era rischioso affidare i codici delle armi nucleari? Con un pericolo per la democrazia? Perché è per fronteggiare quel “pericolo” che molti in queste giorni stanno scendo in piazza a protestare: cos’è, dopo aver evocato il disastro, non credete più alle parole che avete usato per scongiurarlo?

Io non lo so se Trump sia o meno una minaccia per la democrazia. So però che se lo dici evidentemente lo credi, e allora poi devi essere consequenziale, e quindi non ti puoi limitare a dire «il popolo si è espresso, collaboreremo lealmente col nuovo commander in chief », ma devi apprestarti a combatterlo in tutti i modi, finanche a ipotizzare di seguir la via dei monti fino a vederlo penzolare appeso per i piedi dalla pensilina di una gas station. O almeno, visto che i tempi e le tempre sono mutate da quando, davvero, si combatteva per le democrazie nascenti, ti prepari a mettere tutta la sabbia che puoi negli ingranaggi della macchina che guida. Perché se uno mette a repentaglio il sistema democratico e gli assetti internazionali, lo si combatte, ché anche il «collaborazionismo» rimanda a quelle medesime epoche oscure di cui si diceva.

Invece, come se nulla fosse e niente fosse stato detto, lo si invita e gli si offre il tè delle cinque, mentre le consorti parlottano dei destini dell’orto nel retro dei candidi colonnati. Magari, riservando al volgo protestatore in strada la superbia perbenista di uno sguardo incomprensivo e allibito. Verrebbe da risponder loro rinfacciando la chiamata di quello spirito divisivo che oggi entrambi i fronti congiuntamente atterrisce. Siccome, però, sappiamo tutti che sarebbe inutile, l’unico antidoto contro lo sgomento è rilassarsi e pensare che prima, quando si fronteggiavano, in fondo stavano solo scherzando.

E disporci a ritener vane e vuote le parole che diranno ancora domani, s’intende.

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