La fine della filosofia. Ovvero, il racconto d’un dubbio (prima di comprare o demolire una baita a Todtnauberg)

C’è una foto di Lenin a Capri, dove i bolscevichi russi organizzarono nel 1908 una scuola di formazione, che lo ritrae, forse annoiato, data l’espressione, o teatralmente contraddetto dall’andamento della gara, mentre gioca a scacchi. A guardare la partita e ospite dell’incontro, arcigno nel suo baffo vistoso e con i capelli insubordinati, solamente Gorkij. All’altro capo del tavolino, a sfidarlo, Bogdanov.

Uno dei fondatori della corrente bolscevica che portò alla rivoluzione, prima nel 1905, fallendo, poi, facendosi partito, vittoriosa nel 1917. Anno in cui, però, Bogdanov non era più un bolscevico, espulso dallo stesso Lenin nel 1909 a Parigi per dissensi profondi sulla visione della classe che avrebbe dovuto guidare quella rivoluzione, che per il medico di Tula difficilmente avrebbero potuto essere gli operai, dato che il superamento del capitalismo, a suo giudizio, sarebbe potuto avvenire solo ponendo le basi per una società della conoscenza, da favorire attraverso la creazione e la diffusione di una nuova cultura, altrimenti l’azione rivoluzionaria non avrebbe potuto che condurre alla presa del potere da parte di una élite di tecnocrati.

Ma l’autore de La stella rossa diceva pure altro. Per lui, come ricorda Paul Mason (in Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, Il Saggiatore, 2016, p. 259): «il lavoro intellettuale avrebbe sostituito quello manuale, e tutte le occupazioni sarebbero diventate tecnologiche. A quel punto, la nostra comprensione del mondo sarebbe dovuta andare oltre il metodo dialettico che Marx aveva ereditato dalla filosofia. La scienza avrebbe sostituito la filosofia, prediceva Bogdanov, e saremmo arrivati a vedere la realtà come una connessione fra “reti d’esperienza”. Le diverse scienze sarebbero diventate parte di una “scienza universale dell’organizzazione”, lo studio dei sistemi».

Provate ora a rispondere, così su due piedi: qual è l’ultimo vero filosofo che vi viene in mente? Non credo di sbagliare se provo a suggerirvi la risposta: più o meno, qualcuno nato e operante prima della seconda guerra mondiale, o comunque a cavallo di essa. E poi? Se n’è avuto qualcuno dopo, di filosofi puri ed esclusivamente tali, intendo? Lo so, sembra una forzatura, però pensateci; con tutte le eccezioni che riusciremmo a trovare e che in una storia della materia non si esiterebbe ad archiviare quali “minori”, dopo di allora abbiamo avuto semiologi, epistemologi, sociologi, eccetera, eccetera, eccetera, e alcuni fra essi erano anche filosofi. Ma “anche”, appunto, non esclusivamente tali.

Sembra quasi che di quella sciagurata e drammatica definizione heideggeriana, Selbstvernichtung, a rendersene protagonista sia stata la filosofia medesima. L’autore di Sein und Zeit, in effetti, un po’ l’aveva pure detto, quando spiegava come fu la stessa metafisica, figlia della filosofia, a fornire i presupposti per la razionalità vuota e il pensiero calcolante, che se lui vedeva come il compimento logico di un mondo incapace di un vero Dasein (e però quanto sbagliava sull’attribuzione delle responsabilità), oggi che lo sradicamento è il metro dell’uomo nel mondo globalizzato e che l’algoritmo ne è divenuto oracolo, guida e divinità, il fantasma dal vecchio professore di Friburgo evocato, la sua Seinfrage, sprofonda nell’abisso dell’inutilità, come l’intera filosofia, vano sforzo di lentezza e profondità nell’era in cui serve esser leggeri per correre velocemente di superficie in superficie.

Finisce la filosofia, forse, pure perché è la medesima Europa a perdere la sua centralità proprio in concomitanza di quel conflitto pur da essa stessa avviato. Un’umanità che si muove su altre coordinate ha altre coordinate su cui far muovere i propri pensieri, e la parentesi aperta da Talete si chiude con il tramonto dell’europeo (ché quello americano è altro) Occidente, che in tedesco suona già non come luogo, ma come momento della storia, Abendlandes, il paese, la terra della sera.

Adesso, per fortuna o purtroppo, il giorno è nuovo e, purtroppo o per fortuna, ha altri modi per camminare al suo interno e per cercare e trovare il corretto orientamento. E a chi volesse ancora cimentarsi con i ricordi di quello che è stato e la forza di strumenti del pensiero che ormai più nessuno ha voglia di stare a sentire e imparare, non pare rimasta altra strada che comprare o demolire una (dannata) vecchia baita a Todtnauberg.

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1 risposta a La fine della filosofia. Ovvero, il racconto d’un dubbio (prima di comprare o demolire una baita a Todtnauberg)

  1. Fabrizio scrive:

    Renzi ( e non solo) per i non diritti” oggettivi –reali ” degli altri “politica e società civile”
    Ricordare per non scordarsi mai cosa disse Renzi sulle ferie dei Magistrati:
    -Italia patria del diritto e non delle ferie

    Perché e come mai , subito dopo la tragedia immane del terremoto , il primo ministro non ha chiesto alla seconda e terza carica dello stato di riaprire immediatamente, senza se e senza ma, la camera dei deputati e il senato delle regioni?

    Non lo ha chiesto per ragion veduta! Il Presidente del Consiglio Renzi e’ a capo della protezione civile!
    Raccapricciante new town comunicativa e comportamentale di chi ci sta governando!

    Poco giorni fa , il Presidente della Repubblica Mattarella disse non più io ma noi……..
    Renzi a parenti delle vittime del terremoto : io vi aiuterò
    Mattarella al meeting di rimini; tu sei un bene per me

    Ma il bene per il popolo italiano chi e’?

    Un antico proverbio, saggio e popolare, dice: fidarsi e’ bene ma non fidarsi e’ meglio

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