Il buio non giunse all’improvviso

«Tira le noccioline quando vede un negro, ma lo fa per scherzare, perché è un allegrone». Così Simone Mancini parla di suo fratello, Amedeo, reo d’aver colpito e ucciso a Fermo Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano, di colore, perché questi lo aveva affrontato in seguito all’insulto, «scimmia africana», rivolto a sua moglie Chimiary, nigeriana, di colore. E aggiunge, a proposito di quelle parole oltraggianti: «quei due potevano starsene a casa loro, mica li abbiamo chiamati noi in Italia». Ecco perché è razzista quello che è accaduto. Perché «quei due», nigeriani, di colore, qui non dovevano esserci, «mica li abbiamo chiamati noi», e perché, per l’aggressore, lei poteva essere chiamata «scimmia africana» e lui può lanciare «le noccioline quando vede un negro». Ma c’è di peggio.

Una scimmia è pure un orango, e un rappresentante della nazione non esitò a definire così una signora, congolese, di colore, ministro; quell’uomo ancora rappresenta le istituzioni e il Paese, senza che, per quelle parole, sia accaduto nulla. E quante volte ci capita di sentire, se non di dire, «abbiamo già i nostri problemi senza dover accogliere loro», «non sono razzista, per carità, ma basta con il falso buonismo», «prima gli italiani, perché non è ammissibile che questi precedano i nostri in molte cose, dalle graduatorie per le case popolari a quelle degli asili». Così può accadere che ci siano anche quelli che usano le mani.

Sto dicendo che uno che dice quelle frasi è direttamente responsabile per chi riempie di bastonate un ragazzo di colore? Ovviamente no. Ma c’è in quelle parole del razzismo uguale all’altro, solamente meno violento. E se nessuno dice che frasi e parole come quelle sono delle mostruosità indicibili, perché contengono un germe aberrante, allora queste diventano normali e, con esse, si normalizza il razzismo.

In questi giorni, sto leggendo un libro di una ventina d’anni fa, I volenterosi carnefici di Hitler, di Daniel Jonah Goldhagen, già professore ad Harvard. L’autore cerca di spiegare quale società tedesca fosse quella in cui “la soluzione finale”, prima che messa in atto, poté essere detta, come mai si potette affermare che alcuni uomini fossero «subumani», perché si riuscì a praticare esclusioni e marginalizzazioni, angherie e vessazioni prima che gli ebrei fossero portati nei campi di concentramento, quando tutti potevano vedere che a loro erano tolti diritti e possibilità che gli altri avevano garantiti. Eppure, nessuno si oppose, anzi.

«Ridevano», dice Helen Mirren nei panni di Maria Altmann in Woman in gold, bel film sulla storia vera di una ricca famiglia ebraica viennese nel dramma della Shoah. Ridevano, gli austriaci, nel vedere loro, benestanti, spogliati di tutto e trattati come “non umani”. Applaudivano, gli austriaci, all’Anschluss e all’ingresso delle truppe del Reich. Festeggiavano, gli austriaci, il diventare parte attiva del folle e criminale sogno di Hitler. Come ridevano, applaudivano e festeggiavano i tedeschi. E come ridevano, applaudivano e festeggiavano gli italiani.

Nel 1938, a Trieste, Mussolini parlava della “questione della razza” dal punto di vista fascista, in una Piazza dell’Unità d’Italia strapiena di gente estasiata e rapita da quelle parole, da quei discorsi sulla superiorità di alcuni uomini rispetto ad altri. Gli stessi argomenti da cui generò l’Olocausto, per i quali discese sull’Europa il buio dell’immane tragedia.

E non fu solo questione di “popolino ignorante”, come si potrebbe facilmente immaginare e dire per sedare le nostre coscienze. Degli oltre 1.200 professori universitari italiani di quel periodo, solo una quindicina non prestarono il giuramento di fedeltà al fascismo imposto dagli stessi che stilavano le “leggi razziali” e, in Germania come in Italia, intellettuali di primissimo piano non si opposero alla cacciata degli ebrei dalle funzioni pubbliche e dalle carriere dello Stato, dalle professioni come dalle università, dalle scuole o dagli ospedali, solo perché ebrei.

Prima di quella notte dell’umanità, ci furono, nel Bel paese da poco unito, studiosi che si preoccuparono di spiegare al mondo quanto fosse insita nelle forme dei crani meridionali l’inclinazione alla violenza senza che nessuno si sentisse in dovere di contrastarli (e per un capriccio della storia, il maggiore di quelli era di origine ebraica, perché razzisti possiamo esserlo tutti, con gli altri) e gli “zoo umani”, allestiti esponendo i neri delle colonie nelle capitali europee, ma nessuna voce di quel continente così avanzato e gentile nelle arti e nella cultura si levò a denunciarne l’orrore.

Quella poesia di Niemöller ripresa da Brecht la ricordate tutti, vero?

Questa voce è stata pubblicata in libertà di espressione, società, storia e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento