Le periferie, i ceti impoveriti e i professionisti della sinistra

Una premessa: so che non è mai carino parlare di sé, però sono necessarie due parole prima di quelle che seguiranno. Personalmente, non ho mai considerato una colpa del singolo la mancanza di competenze e sapere, né ho mai disprezzato quelli che in una tale condizione si trovassero. Mi sono divertito, e molte volte, con gli ignoranti al potere, ma questa è un’altra storia. Spesso, al contrario, me la sono presa con quelli che disprezzavano gli umori e i sentimenti della gente poco colta, anche in tempi ormai remoti, pure quando quella spocchia altezzosa si riversava su espressioni e sentimenti diversi dalla politica. Eppure, non essendo stato capace di far nulla per cambiare una simile disposizione e considerandomi ancora in quella parte politica, seppur in modo sicuramente dilettantistico, in senso letterale, al confronto dei tanti che, più che farne professione ideale, ne han fatto mestiere reale, in quello diventando stimati professionisti e concreti mestieranti, non posso non assumere la mia quota di colpe. Detto questo, andiamo avanti.

Come se fossero questioni apparse in una notte, oggi tutti scoprono che i partiti di sinistra, e non solo il Pd, hanno problemi a parlare con chi vive nelle periferie e con gli strati già borghesi ora “proletarizzati”, progressivamente impoveritisi. Credo invece, per parlare del primo caso, che le connessioni con quei luoghi delle città ai margini e dimenticati dal centro, noi da quella parte le abbiamo perse da tempo, almeno da quando abbiamo cominciato a pensare che con chi andava in giro col braccio fuori dal finestrino di un’utilitaria con più watt per il subwoofer che cavalli alle ruote, con quanti ci facevano ridere per gli errori di grammatica e sintassi anche nei pensieri, con quelli che «il problema sono gli stranieri, e pure gli zingari rom e rumeni», non era il caso di parlare. «È una questione di differenza culturale», dicevamo e diciamo, con sprezzante presunzione, certificando, noi stessi e non altri, in quelle parole un’alterità insanabile.

Col passare delle stagioni, a quel distacco che vantavamo come “antropopolico” se n’è aggiunto uno d’un tipo diverso, e veniamo qui al secondo aspetto di quella separazione. Perché mentre facevamo arrabbiare con la nostra tracotanza chi consideravamo “tamarro”, si è promossa, e non solo nei partiti e ai ruoli di governo e rappresentanza, ma nelle partecipate, negli enti e in tutti i posti dove è stato possibile arrivare, aziende private non meno che istituzioni statali, una classe dirigente che da quei livelli di cultura che snobbavamo in pubblico, e stando ben attenti a esser notati nel farlo, non se ne distaccava per qualità apprezzabili. E così, quello che chiamano il “ceto medio riflessivo” ha riflettuto, e se n’è andato.

E credo, ancora, che le ostentazioni di alterigia a cui continuiamo a dar corso, che si tratti di un voto inglese o d’una consultazione nostrana, aggravino maggiormente questa frattura. Dire che i giovani dell’Erasmus han votato con la speranza nel futuro mentre il bifolco del Sussex per la paura del presente, non fa che accrescere quello iato. Così come, al ragazzo delle Vallette o di Tor Bella Monaca fermatosi alla terza media fanno arrabbiare le nostre battute sulla sua ignoranza, e nemmeno ride quello che come e più di noi ha studiato e che si è visto superare da altri perché conoscevano non qualcosa, ma qualcuno.

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