Questione di classe

Quos vult Iupiter perdere, dementat prius. Sembrerebbe così evidente quello che sta succedendo, da dove passi la frattura, il punto in cui si insinuano le divisioni e le differenze, eppure. Eppure, ne ho lette di tutti i colori e di ogni tenore sulle ultime espressioni popolari, che siano state in voti amministrativi di qua dalle Alpi o per referendum al di là della Manica.

“Populismo”, “demagogia”, “disaffezione”, fino alla più bella, quella che vuole contrapposti il ragazzo britannico col master e l’Erasmus e l’anziana inglese con l’artrite e spaventata, quasi che il fenomeno fosse incasellabile in una faccenda di generazione o di studi fatti. Certo, il dato culturale è stato presente nella distribuzione del voto sulla Brexit, ma come epifenomeno, non come asse portante. Guardando i dati come ha fatto The Guardian, la mappa che ne emerge non è molto lontana da quella che ha contrassegnato le comunali di Torino e Roma: le zone più povere, popolari e, si sarebbe detto un tempo, operaie hanno votato contro l’establishment; quelle più ricche, sicure e, col linguaggio d’una volta, borghesi a quel sistema hanno confermato il loro sostegno. Insomma, è stata una questione di classe.

Devo impegnarmi per leggere un testo in inglese, figuratevi se possa pensare di spiegare a qualcuno tutti i misteri di quella terra e gli orientamenti delle genti che la abitano. Ma se un determinato parere viene espresso in una specifica tipologia di quartieri, allora quel dato so vederlo. Come a Torino e Roma, così a Liverpool e Londra; i poveri votano contro quello che vedono come l’apparato di potere dei ricchi. E gli impoveriti, in questo, sono più rabbiosi, si rivoltano e vedono in quel gesto la vendetta contro quelli, gli arricchiti, che di loro si sono dimenticati.

Nel voto di questi ultimi, della parte proletarizzata dell’ex ceto medio, si aggiunge la cattiveria indotta generata dal sentirsi traditi. Non è una novità, nel 1919 il Corriere della Sera scriveva: «Oggi sono molti gli ingegneri professionisti od anche dirigenti di officine, moltissimi i professionisti, i funzionari pubblici, gli alti magistrati, presidenti di tribunali e di corti, professori ordinari di università, consiglieri di stato, i quali non sanno credere ai loro occhi. Vedono dei capi tecnici chiedere paghe, le quali (…) sono di 1000, 1250, 1625 e 2000 lire il mese (…). Che cosa dovremmo chiedere noi, si domandano tutti quegli alti magistrati, quei professori universitari, i quali hanno passato nello studio i più begli anni della vita per giungere sì e no verso i 35-40 anni a 600 lire di stipendio al mese ed i più anziani alle 1000 lire? La mortificazione nei ceti intellettuali è generale. I padri di famiglia si domandano se essi non hanno torto di far seguire ai loro figli corsi di studio lunghi 12 o 14 anni, dopo le scuole elementari; e se non sarebbe meglio di mandarli senz’altro in una officina».

Ricordando quelle parole, Gaetano Salvemini, ne Le origini del fascismo in Italia, spiegava quanta parte ebbero sentimenti simili nel sostenere la mano delle bande criminali da cui generò il Ventennio e che all’epoca s’andavano formando e rafforzando. Oggi, sulle pagine di quello stesso giornale, è l’élite culturale che condanna tutti quelli che temono per il proprio futuro e di questo incolpano istintivamente il potere costituito, spingendoli, anzi, respingendoli, come fa Bernard-Henri Lévy parlando di «volgarità globale» (sapesse, Contessa!), in una sorta di cittadinanza in minore, dove vagano quelli a cui è dato il potere di voto, ma per cui è lecito usarlo solo se fanno la scelta gradita ai pochi chiamati a decidere e capire di queste cose.

Sto dicendo che fanno bene a votare Trump in Usa, Farage in Inghilterra e Grillo da noi? Ma quando mai. Dico, però, che continuando a storcere il naso perché quelli che votano quanti una categorizzazione comoda a far prendere sonno ai benestanti quando cala la notte chiama “populisti” sbagliano i congiuntivi, non sanno le lingue e ignorano i precetti del relativismo culturale, non si fa una buona politica. Almeno, non una buona politica di sinistra. Perché poi è in quei quartieri che si scaricano le difficoltà del mondo moderno, dalla globalizzazione agli effetti deleteri del liberismo buono per i vincenti, dalle migrazioni ai problemi d’integrazione. E perché, ancora, a litigarsi il poco che rimane e anche a stingersi per far spazio ai poveri sono gli altri poveri nelle periferie, non i ricchi del centro; i secondi si aspetterebbero pure che i primi continuassero «a sorridere, perché se no è immorale»?

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