Per questo la “fiducia” è sbagliata

Ho ascoltato diversi esponenti della maggioranza, a proposito della mozione di sfiducia delle opposizioni presentata a seguito dell’affaire petrolio, dire più o meno: “è l’ennesima volta che accade, è come se fosse l’unica cosa che fanno le minoranze”. Capita, soprattutto quando l’unica cosa che fanno i governi sui loro provvedimenti è porre la questione di fiducia.

Un po’ è quello che è successo sull’emendamento, diciamo così, Total. La Commissione competente, peraltro guidata da un renziano della prima ora, l’aveva discusso e messo da parte, che è il lavoro del Parlamento nel processo legislativo. Poi, qualche renzista dell’ultimo giorno, nell’ora che chiude la notte, l’aveva inserito in una legge più grande che, con la fiducia, appunto, tutti i governisti hanno votato, senza discuterla. Ed è capitato quello che capita quando, con le richieste fiduciarie, con i canguri e le ghigliottine, capita: il dibattito d’aula si avvilisce, l’approfondimento si perde e la discussione sul merito di quel che si vota langue.

Succede, in quel modo, che chi l’ha votato in una sede gli si opponga in un’altra, che lo stesso partito che l’ha voluto per legge ne chieda l’abolizione con referendum, giocando a fare tutte le parti in commedia (nella farsa, dicono i cinici), e che gli elettori si sentano presi in giro non sulla questione specifica, ma nel modo di fare generalizzato.

Che in definitiva è sempre quello: c’è qualcuno che sta al governo che ha parenti, figli, compagni, genitori, che fanno affari con attività in un modo o nell’altro legate all’azione di questi, che telefona per dire “tutto a posto”, che s’interessa per sbloccare qualcosa, avviare qualcos’altro, snellire alcune cose, e che quando si viene a sapere, o nega o ti spiega il senso d’oscure e arcane espressioni tipo: “per ragioni di opportunità politica”.

Senza cancellar la sostanza delle cose fatte, ovvio.

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