Il fascismo in noi

«Infine, il nemico maggiore, l’avversario strategico: il fascismo (laddove l’opposizione de L’Anti-Edipo agli altri suoi nemici costituisce semmai un impegno tattico). E non soltanto il fascismo storico di Hitler e Mussolini, che ha saputo mobilitare e impiegare così bene il desiderio delle masse, ma anche il fascismo che è in noi, che possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta». Così Michel Foucault, nella sua Introduzione alla vita non fascista, scritta nel 1977 quale prefazione all’edizione statunitense dell’opera di Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’Anti-Edipo.

Se qualcuno provasse oggi a pronunciare parole simili a quelle del filosofo francese, verrebbe di certo accusato di sterile utopismo e vano intellettualismo. E però, io credo che ancora adesso il problema sia da porsi in quei termini: finché non risolveremo il problema che abbiamo con il potere, fino a quando non riusciremo a superare quel nostro complesso, più profondo quanto più si sale nella scala delle posizioni sociali, non riusciremo davvero a liberarci da quell’incubo che, realizzandosi nella storia, può diventare tutto quello che abbiamo già conosciuto.

Due anni prima di quelle frasi dell’autore di Sorvegliare e punire, Pier Paolo Pasolini, rilasciando a Furio Colombo quella che sarebbe poi diventata la sua ultima intervista, disse d’aver «nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone», perfettamente simili a esso, «uguali al padrone, altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo». Quanto suonano queste come quelle!

A guardarla in quest’ottica, quanta parte del nostro anti-fascismo non sarebbe “non fascista”? Volevano combattere il fascismo, quel padrone e quel potere, o solo sostituirsi a esso i tanti che contro gli puntarono le proprie armi? E vogliono davvero opporsi al potere o solo prenderne il posto i tanti che ora si dicono “antisistema”, oppositori o resistenti?

Come non ricordare le parole di Giustino Fortunato all’avvento del regime fascista in Italia: «non è una rivoluzione; è una rivelazione». La rivelazione di un vizio antico, quello che vuole le classi borghesi non interessate a cambiare la natura del governo delle cose, ma ad assumerne il comando, e quelle sottostante ad ambire a farsi borghesi, a prendere “la roba”, con le immagini e le derive che Giovanni Verga ci ha illustrato nel suo mirabile ciclo di novelle.

Perché se quello contro cui, strategicamente, metteva in guardia Foucault è vero in generale, in un Paese di piccola borghesia come il nostro è ancora più vero. Qui, dove lo Stato è diventato una sorta di idolatria per quei gruppi al cui interno, e solo al suo interno, possono trovare soddisfazione per la propria sete di potere, e per esigenze più semplici, quando non di mera sopravvivenza economica e occupazionale, in un eterno ripetersi di fascismo e anti-fascismo, che non è “non fascista” in quanto col primo condivide la prosecuzione del mito del potere e dell’idolatria statale, incapace di mutare radicalmente la situazione e volgere verso una diversa, e autonoma, organizzazione del governo e della politica, dei rapporti di produzione e del confronto e conflitto fra le parti sociali.

E tornano, a chiudere, i pensieri di Carlo Levi: «Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparino per il futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l’Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e anche le più estreme e apparentemente rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano».

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