Non è qualunquismo, è solitudine

«Io non sono un qualunquista, e non amo neanche quella che (ipocritamente) si chiama posizione indipendente. Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E se dunque mi preparo […] a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine».

Mi sono precipitato a comprare Il Caos, testo edito da Garzanti che raccoglie gli scritti di Pier Paolo Pasolini nell’omonima rubrica su Il Tempo del 1968. E nella spiegazione che lo scrittore dà del perché di quello spazio d’opinione, m’ha colpito il periodo che ho riportato all’inizio. «Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine». Allora, mi chiedo, e se quella che per Pasolini era consapevolezza, per molti fosse solo un riflesso, una deriva, un’incosciente virata?

Pochi giorni fa è morto Licio Gelli (il diavolo l’abbia con sé), e leggendo quelle parole del Corsaro di via Solferino, m’è tornata in mente un’altra storia legata al Corriere della Sera, ben raccontata da Paolo Morando nel suo Dancing Days di qualche anno fa, e collegata al defunto massone visto che il direttore dell’epoca, gli anni 1978-1979, era Franco Di Bella e le pagine di quel giornale, in quella stagione, s’impregnarono di P2. Nel settembre del ’78, Di Bella mette in prima pagina una lettera che parla d’amore. Scelta insolita, contro il pensiero di quel tempo che usciva dagli anni dell’impegno sempre e comunque, in cui tutto il dicibile era sempre e solamente “politico”.

Stava iniziando il “riflusso” e la gente si accontentava della propria intimità non condivisa, privata appunto. «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico»; aveva voluto far iniziare così il suo L’uomo a una dimensione Herbert Marcuse una quindicina d’anni prima. Alla fine dei “settanta”, tutto era compiuto, perfetto, definito.

Quell’unica dimensione era ed è, in buona sostanza, “l’individuale”; non l’affermazione forte della propria singolarità, bensì la sostituzione di “quel singolo”, come Kierkegaard volle scritto sulla lapide a testimonianza di una peculiarità non riducibile, con un disperato urlo impotente quanto arrogante disperatamente solitario replicato in milioni di versioni indistinguibili l’una dall’altra. Che si tratti di affrontare il successo o di confrontarsi con la sconfitta, si è sempre soli. Il “politico” era collettivo; il “consumatore” è abbandonato a sé. Consigliato dalla pubblicità negli acquisti, blandito dalla propaganda per il consenso, ma dimenticato per tutto il resto. E in quel “resto” c’è la sua vita, che se non è come la racconta la tv, allora è rancorosa, e il “qualunquismo” da cui rifuggiva Pasolini si fa meta consolatoria e approdo ricercato.

Perché è dalla solitudine che nacquero allora gli idoli oggi al crepuscolo: il self-made man, il rampantismo, l’autoaffermazione nella vita e nel lavoro. E anche i demoni che ci portiamo dietro: gli oppiacei come liberazione, ora sostituito dalle droghe sintetiche, il punk quale reazione individuale e disperata alla sconfitta cosciente d’avere “no future”, oggi rimpiazzata dal ritmo ossessivamente ripetitivo per stordirsi in moti meccanici che di condiviso hanno appena il luogo.

È sempre nella solitudine, poi, che accade pure che la forza si faccia violenza, ché altra strada non può e non sa prendere. Pasolini sapeva che il suo essere solo gli garantiva “una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività”. Ma non a tutti può bastare. E a qualcuno, sempre di più, può venir voglia di praticare sul gradino più basso quell’uguaglianza fintamente promessa dalla parificazione delle opportunità; la sostanza pratica di ciò che chiamiamo “qualunquismo”.

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