La presa d’atto di Andrea

“Io, in questo partito, non rappresento più nessuno. Perché la gente che ho cercato di rappresentare in tutti questi anni, da quando faccio politica, insegnanti, studenti, lavoratori, a questo partito hanno già girato le spalle, e io non so fare a meno di loro. E li voglio ritrovare: mi assumo le mie responsabilità e me ne vado”. Così Andrea Ranieri, nella sua ultima partecipazione alla direzione nazionale del Pd.

L’uscita dal partito di Renzi (perché ormai è sempre più solamente quello) dell’esponente ligure, a molti, in perfetto stile renziano, può suscitare un moto delle spalle, come a dire “ce ne faremo una ragione”. Le parole che ha usato, però, a me ricordano molto da vicino il mio sentimento dei mesi passati, e tante cose che stanno accadendo. Dice Ranieri di sentire di non poter rappresentare nel Pd quelli a cui guardava, perché essi non guardano più al partito di cui, fino a ieri, era parte, scoprendo, con le sue parole, un lembo sottovalutato o nascosto dallo storytelling renzista: la questione della rappresentanza, appunto.

Perché l’interesse e le attenzioni della classe dirigente del Pd attuale sono totalmente incentrate sulla governabilità, l’amministrazione, l’esecutività del potere e delle sue decisioni. Che sono importanti, certo, ma non esauriscono il mandato di un soggetto politico. Specialmente, poi, quando esse si scontrano con pezzi importanti del mondo da cui quello stesso mandato origina.

L’ultima riunione dell’organismo dirigente del Partito democratico è stata in questo emblematica: dentro, il leader che spiegava come il Pd fosse il centro e il fulcro dell’azione del Governo; fuori, una fetta importante di quanti, sentendosi da quell’azione esclusi o addirittura penalizzati e avendo spesso votato per quel partito, promettevano d’abbandonarlo alla prossima tornata elettorale.

In mezzo c’è tutto il resto: quello che abbiamo visto in questi mesi, dalla riforma del lavoro ai provvedimenti in materia di opere pubbliche e infrastrutture, dalle politiche sulla casa alla torsione governista dell’impianto istituzionale, con l’ovvia conseguenza che molti di quelli che ritenevano quelle stesse cose non dei modi di dire, ma essenze del fare politica, hanno semplicemente deciso di andarsene, non riconoscendosi più in coloro che dicevano di rappresentarli.

“Sarà difficile vincere le elezioni avendo determinato una situazione per cui buona parte dei nostri iscritti e dei nostri militanti difficilmente andrà a votare per questa candidata”, disse nel gennaio scorso lo stesso Ranieri a proposito di quello che stava avvenendo per le regionali in Liguria. Fu ignorato allora perché l’importante era proprio “vincere”, verbo ritornato quasi a essere la parola d’ordine “categorica e imperativa per tutti”.

Oggi, il tema è ancora quello della vittoria divenuta fine e ragione della politica, che va al di là, e oltre, le norme, le parti, le idee, e quindi, di nuovo, le sue parole saranno trascurate dalla dirigenza democrat: tanto, per un Ranieri che se ne va ci sarà sempre un De Luca che rimane o un Verdini che potrebbe arrivare.

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