Semplicemente, perché vincere non basta

Ho letto in questi giorni tanti commenti, anche autorevoli e tutt’altro che banali, che spiegavano come, in Liguria, l’errore sia stato sostanzialmente di quelli che, a sinistra, se ne sono andati, favorendo la destra. Ora, potrebbe apparire una cosa logica, e in linea di massima lo sarebbe pure, solo che non è proprio così.

Vale per la Liguria, ma può valere per gli altri casi passati e futuri: se la proposta politica non è convincente, per l’elettorato prima che per i soggetti politici, non solo non aggrega, ma perde. Quindi, anche se può apparire un ragionamento semplicistico, se la Paita non ha vinto è perché i liguri non l’hanno votata. E ligure era anche Pastorino e quelli che con lui si sono candidati o che lui e loro hanno sostenuto. La proposta politica del Pd non era per essi convincente (visto come sono bravo con gli eufemismi?) e si sono organizzati per proporne un’altra.

Le divisioni danneggiano? Non è detto, e comunque sono una conseguenza delle proposte politiche. Se le divisioni fossero solamente ricerca di visibilità personale o ripicca per un mancato riconoscimento, cosa di cui si è tentato di accusare il candidato di sinistra in Liguria, non arrecherebbero alcun danno.

Volete la prova? Guardate il Veneto: Tosi è andato via e, stando alla logica per cui dividendo si perde, la Moretti avrebbe dovuto esserne favorita e Zaia colpito. Invece, nonostante in percentuale il sindaco di Verona abbia portato via più di quanto fatto dal suo omologo di Bogliasco, il presidente uscente si è riconfermato con un risultato eccezionale. Se la tesi per cui Pastorino è la causa della vittoria di Toti fosse applicata in Veneto, l’immagine della Moretti ne uscirebbe davvero, e ingenerosamente, sminuita.

Tornando al punto di prima, il problema è dunque un altro. Se una candidata o un candidato alla presidenza di una amministrazione regionale immagina lo sviluppo del territorio solamente come grandi opere e cemento, se la sua visione è percepita come fortemente connessa con l’immobilità autoreferenziale di un sistema di potere chiuso, se non mancano eccessive aperture ai privati sui servizi essenziali e progressive riduzioni dell’attenzione a quei comparti, dalla difesa del ruolo del pubblico alla tutela della fasce più deboli di popolazione, su cui si caratterizzava e si caratterizza la politica di sinistra, non c’è da stupirsi che chi a quella guardava non trovi più in questa o questo il suo riferimento.

E come si diceva vale anche per il futuro. Se la proposta politica che è stata messa in atto con forza e portata avanti con decisione da un partito che si dice di sinistra è fatta di politiche sul lavoro che mirano alla riduzione dei diritti, interventi in materia ambientale piegati alla dittatura di cemento, acciaio e trivelle, una visione dei rapporti democratici finalizzata all’affermazione di quelli di forza, misure sul diritto all’abitare classiste e securitarie, parole sui temi dell’immigrazione che suonano reazionarie e non disdegnano i toni della guerra e un’infinita teoria di alleanze che fanno della destra il partner usuale, quando non preferito, per alleanze di governo a tutti i livelli, perché stupirsi che ci sia qualcuno, a sinistra, che declini il suo invito elettorale? Solo per quel suo “dirsi”? Basta un nome, un’evocazione di appartenenza, un simbolo usato come marchio?

Il tema è tutto qui, e vincere non basta: se vincendo si fa altro da quello che si dice, o si mettono in pratica le cose che proprio si avversavano e si avversa, a che serve quella vittoria? E perché chi a quelle scelte è contrario dovrebbe sostenerle? Per la gioia di essere contemplato fra i vincenti, pure se poi si subiscono le decisioni assunte, come sempre accade agli sconfitti? Ma non è mica una partita di calcio in cui fare il tifo per una squadra che, vinca o meno, non sposterà una virgola nella vita quotidiana.

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