Il disfattismo è pericoloso. Come accusa

Intervenendo in un incontro al Salone del libro di Torino, Carmine Saviano ha detto che “oggi, in Italia, chi critica viene considerato un disfattista, come durante la Prima guerra mondiale, come al tempo del fascismo. Non è pensabile che la critica venga associata al disfattismo”. Non ha torto. Eppure, è quello che avviene.

Quell’accusa, disfattismo, assume nella stagione presente toni e termini diversi. Li avrete di sicuro già sentiti: “gufi”, “pessimisti”, “professionisti del non ce la farete mai”, eccetera, eccetera, eccetera. Tutto ciò è sotteso all’idea che chiunque sia contro il Governo e la maggioranza non lo sia, semplicemente, perché la pensa in modo diverso da loro, ma perché, fondamentalmente, rosichi, sia invidioso, e agisca o tenti di agire, in ultima istanza, contro “il bene del Paese”.

A parte che è da dimostrare che quello che sta facendo il Governo e la maggioranza sia effettivamente “il bene del Paese”, è l’idea stessa di una simile contrapposizione che non ha senso. Ancor meno ne ha in democrazia. C’è una maggioranza e un Governo che hanno tutto il diritto di provare a fare le cose che vogliono fare, e c’è una minoranza e un’opposizione che hanno tutto il diritto di pensarla diversamente, e anche di cercare di impedire che la maggioranza realizzi i suoi progetti. Nel mentre le cose accadono, non solo una volta a ogni elezione.

Se la maggioranza è in grado di fare quello che ritiene opportuno, è lecito che provi a realizzarlo. Se la minoranza riesce a opporsi e a non farglielo fare, è lecito che ci provi e, nel caso fosse possibile, che ci riesca. Il biasimo “ma così non si fa mai nulla” è fuori luogo, e pure destituito di fondamento. Le cose che si possono fare, chi governa le fa. E non sempre le fa bene. Se, per esempio, qualcuno si fosse opposto e fosse riuscito a impedire alcune delle cose fatte da chi era al governo nel recente passato (e che autorevoli conoscitori dell’argomento hanno definito “pippe”), avremmo evitato non pochi problemi, dal dover chiamare “esodati” quanti, cambiando i patti, si è lasciati cadere fuori dalla possibilità d’avere un reddito fino alla costruzione ideologica di quei vincoli di bilancio a cui ci stiamo impiccando. Anche allora, se qualcuno si fosse opposto, qualcun altro l’avrebbe chiamato “nemico del cambiamento”, però magari sarebbe stato meglio che ci fosse stato e che fosse riuscito nel suo intento, a giudicare da quelli che ora tutti dicono essere gli errori a cui dover rimediare.

Invece, accusare di disfattismo coloro che la pensano diversamente dal potente di turno è lo sport preferito dai corifei e coreuti che a esso si conformano con quel “misto di abnegazione e opportunismo”, di cui parlò Aldo Moro nell’XI congresso della Dc nel 1969 quale metodo della maggioranza relativa di allora per andare avanti, o almeno che lo fanno per il tempo sufficiente a trovarne un altro a cui, con identica schietta mistura, conformarsi nuovamente.

Solo che è pericoloso. Perché, se chi è contro il potere pro tempore è anche, e per ciò stesso, contro “il bene della Paese”, allora esso diventa un nemico, anzi, il nemico, con tutto quello che ne comporta. E la ricerca dei nemici, interni o esterni, non appartiene alle democrazie, dove tutti sono legittimati ad aspirare, nel rispetto dei valori comuni, a sostituire chi governa per fare cose anche radicalmente differenti, ma a un altro tipo, non proprio auspicabile, di organizzazione dello Stato e della società.

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