Il problema non è la coalizione, ma la rassegnazione sociale

“Cosa abbiamo ottenuto con lo sciopero generale? Niente. Il Governo è andato avanti e non abbiamo più lo Statuto dei lavoratori. Cosa diciamo a tutti? Basta, rinunciamo, la partita è finita? Per me la partita non è finita”. E poco più avanti: “Tutti fanno politica, non prendiamoci in giro. La Confindustria non fa politica quando porta a casa quello che vuole? Renzi non fa una colazione con i poteri forti? Il sindacato invece deve fare il portiere con le mani legate mentre tutti tirano in porta?”. Se le pone il segretario generale della Fiom, e non sono domande retoriche.

“Se la situazione è quella in cui c’è una maggioranza che si muove a tutto campo”, dice ancora Landini, “io debbo continuare a giocare dentro il perimetro che decide qualcun altro? Il Governo cambia tutte le leggi, sta agendo a 360 gradi e io devo star fermo dove decidono loro? Cos’è il sindacato se non mettere insieme tutti quelli che non ce la fanno? È far politica? Certo, ma non è fare un partito; è fare politica perché il sindacato rappresenta non solo i lavoratori nel luogo di lavoro, ma li rappresenta come persone, e ha un’idea di società”. Se volevate una spiegazione esatta del significato del termine “coalizione sociale”, eccovi accontentati: “mettere insieme tutti quelli che non ce la fanno”.

È ovvio che sia “far politica”, ma la domanda è invece perché questi non si rivolgano, o si sentono esclusi, da quella che è la politica istituzionale, quella fatta dai partiti tradizionali, negli organismi di rappresentanza, attraverso gli enti e i poteri di governo. Il problema, semmai, non è tanto la “coalizione sociale”, ma, al contrario, la rassegnazione, che rischia di favorire il disgregamento della società, con la rinuncia dei singoli a farsi collettività o, peggio, nell’idea che l’unica soluzione sia una reazione individuale e disperata, violenta, come sempre sono le rivendicazioni a cui manca la forza per farsi azione.

Lo dico senza alcun intento accusatorio, però le risposte che dal mondo dei politici sono arrivate alla proposta di Fiom, Arci, Emergency, e tutte le altre associazioni e realtà che si sono viste nella sede romana dei metalmeccanici della Cgil, sono quanto di più sbagliato si potesse immaginare. Soprattutto quelle arrivate dalla sinistra dell’arco parlamentare. La vice segretaria del Pd Debora Serracchiani intima a Landini di “chiarire la sua posizione”, nemmeno fosse un ministro intercettato al telefono con un arrestato mentre gli chiede un “appuntamento” per il figlio. Il capogruppo del partito di Renzi, Roberto Speranza,  afferma, con tono stentoreo, che “la soluzione non può essere una nuova sinistra antagonista che nasce dalle urla televisive, ma avere più sinistra nel Pd e nella nostra azione di governo”, ergendo il proprio piccolo pezzo di società, elitario e non di rado autoreferenziale, a unico, indiscutibile ed esclusivo, proprio perché, letteralmente, esclude, campo di gioco.

Ma se è così, se coloro che fanno la politica nelle istituzioni chiedono a Landini di chiarire la sua posizione, che è un modo per dirgli di non uscire da quella in cui lo si vuole confinare, e se, comunque e in ogni caso, questa e solo chi la fa può, per essa stessa, essere artefice e protagonista della soluzione, allora ha ragione lui: “che altro devo fare? Continuare a giocare dentro il perimetro che decide qualcun altro? Star fermo dove vogliono loro?”.

Però, in questo modo, il rischio di disgregazione e abbandono è alto. Se si spiega a tutti quelli che hanno perso o che non ce la fanno che la partita politica giocata sul terreno della sfida istituzionale e democratica è finita, e il risultato è ormai acquisito e fissato, il numero di quanti potrebbero esser tentati dalla rinuncia a praticarlo, quel terreno, o di provare a percorrerlo con altri mezzi, si fa sempre più preoccupante. E con questo, la probabilità di doversi domani rammaricare che quel tentativo di “coalizione sociale” non abbia funzionato.

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