Un lavoro diverso

“Si potrebbe fare tutti una coalizione sociale”. “Vengo anch’io”. “No, tu no”. Sto scherzando, certo, ma meno di quello che sembra. Oggi Pippo Civati scrive dei progetti politici che mancano, e sono d’accordo con lui; non certo per questioni correntizie, ma per logiche consequenziali.

Perché ascoltare i complessi e articolati interventi sull’esigenza di una grande alleanza nella società per creare un soggetto politico nuovo e alternativo a quelli esistenti (cosa della cui urgenza sono sempre più convinto), per poi, negli stessi, scoprire che però è meglio che chi fa o ha fatto politica non ci sia, un po’ mi fa venire in mente la canzone di Enzo Jannacci. E un po’ anche quella cattiva miopia di alcuni interpreti della realtà, capaci di scorgere la ruga differente nel volto di chi sta loro più vicino, ma sicuri nell’incedere verso le meraviglie di un orizzonte che vedono perfetto solo perché sfocato e lontano.

Insomma, se il progetto vuole essere inclusivo, non può partire dalle esclusioni, sempreché ambisca a qualcosa di più che sollecitare, e solleticare, quel sentimento di ventre sempre presente e sempre pronto a scaricare sulla “politica”, astrattamente idealizzata quale ente animato da vita propria, le responsabilità di ogni fallimento sociale e civile, in una sorta di catartico e barbarico rito collettivo che finge di far comunione sulla somma delle individualità.

Alla nascita del Pd, chi come me seguì altre strade, si ritrovò in una selva di associazioni e forze politiche che nascevano a ripetizione (e ad alcune delle quali ho partecipato direttamente, così da fugare l’idea che stia criticando scelte altrui), tutte con l’idea di “unire la sinistra” e la pretesa di saperlo fare meglio degli altri: se siamo qui, forse è perché in quella fase qualcosa è stato sbagliato, che dite?

C’è stata una stagione in cui il Partito democratico pareva aprire a una prospettiva più capace di tenere dentro anche le istanze di parte di quel mondo, e non è casuale che in quella molti, me compreso, a esso si sono avvicinati. Oggi, con la guida di Renzi e del nuovo gruppo dirigente, il Pd sterza decisamente a destra su molti dei terreni caratterizzanti di una forza politica. È fisiologico che, a quel punto, operando una simile scelta di campo, decisa e radicale, quel partito si scopra a sinistra. Non perché ci sia una incontenibilità di quei temi per questo soggetto, ma proprio perché quello, per autonoma decisione, sceglie di non volerli contenere.

Ciò pone alla politica, e pure alla società, il tema della rappresentanza di simili istanze e la necessità di avviare un lavoro diverso, da fare in tanti: costruire, inventandosene anche le forme, se necessario, un nuovo modo per rispondere a tali domande. Nel fare questo, non si può non agire partendo da quella che Marx (e con questa citazione paleso la mia inadeguatezza a contribuirvi nello scenario attuale) avrebbe definito “l’anatomia della società civile”, ma che andrebbe rivolto prioritariamente alle nuove forme di lavoro contemporaneo, per scoprire, magari, che esse sono fortemente connesse con i temi della disoccupazione come dell’autoimpiego, e che in quei rapporti di forza c’è anche la radice dei tarli, dalla competizione continua fra gli individui fino al primato della stessa pure all’interno della medesima prestazione lavorativa, che hanno minato il fondamento di ogni azione di cambiamento collettivo: la solidarietà.

Un lavoro diverso, certo, e difficile, e non è da escludere che possa essere vano. Ma se c’è un traguardo possibile, per quanto lontano, l’unico modo sicuro per esser certi di mancarlo è iniziare dando medaglie e patenti a quanti ci sono già o potrebbero arrivare.

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