Il mito dell’esclusività genera esclusioni

Cofferati dovrebbe dimettersi da parlamentare europeo”, dicono alcuni in seguito all’abbandono del Pd da parte dell’ex sindacalista, dopo le vicende delle primarie liguri. Richiesta che ha una sua logica, per carità, solo che bisognerebbe usarla sempre, altrimenti meglio sarebbe non invocarla mai.

Perché, se si chiedono le dimissioni del Cinese, non si capisce per quale motivo si applauda l’arrivo di Migliore, ipotizzando anche di premiarlo (eventualmente senza primarie) con la candidatura alla presidenza della Regione Campania. Insomma, dico, nel caso dell’ex deputato di Sel, il ragionamento usato per Cofferati dovrebbe valere ancora di più, dato che il primo è stato eletto con una lista bloccata e il secondo prendendosi le preferenze una per una. Invece, no: Gennarino è stato applaudito alla Leopolda e interviene fra ampi assensi alle assemblee democratiche, come accade ad Andrea Romano, la scissione di Angelino Alfano e sodali è incensata come responsabile, mentre è preventivamente accusato di mirare alla destabilizzazione un eventuale identico percorso da parte di quanti stanno nel partito guidato da Renzi.

Così, però, non si capisce se la pratica del “divorzio politico” sia legittima o meno. Se lo è, lo è per chi decide dalla minoranza di passare al sostegno generoso della maggioranza, ma anche per chi da un partito di governo tende verso l’opposizione. Se non lo è, non lo è in entrambi i casi. E se si invocano le dimissioni di Cofferati dal Parlamento europeo, tanto vale chiedere quelle di ogni parlamentare italiano, dato che, rispetto allo schema col quale è stato eletto, nella prassi è passato a un gioco diverso.

E poi c’è un altro tema, che è quello che col suo abbandono apre proprio Sergio Cofferati. In sostanza, se il Partito democratico sceglie la strada dell’alleanza organica con la destra, contrapponendola a quella con la sinistra definita radicale per banalizzarne le istanze, non può dirsi stupito che quella parte lo abbandoni. Anzi, ritengo che, data la scelta di quell’alleanza, questo sia proprio il risultato perseguito.

Come dire, se si rincorre il mito dell’esclusività votato al supremo, e unico, fine della dell’affermazione nelle urne, non ci si può lamentare se gli esclusi, semplicemente, prendano atto di quella situazione e se ne vadano.

Dando così, però, il via a un’altra serie di dubbi, che potrei provare a sintetizzare in una domanda: se la ragione politica del renzismo è tutta, e solamente, nella vittoria elettorale fattasi fine e non strumento, fino a quando esso potrà contare su queste vittorie, avrà buon gioco a cantare pure di quelle ragioni; può, chi contesta le une dare una mano a conseguire le altre?

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