Manca solo la politica

C’è tutto nel Pd di oggi. C’è il governo del Paese e quello della maggioranza delle regioni, ci sono gli amministratori comunali e i sindaci, i giovani al comando e quelli nelle istituzioni, i ministri, gli assessori, i presidenti. C’è la capacità di imporre le decisioni assunte dalla segreteria e ci sono le leve giuste per trasformale in azioni. C’è l’ambizione a vincere ogni elezione in qualsiasi situazione e ci sono le donne e gli uomini adeguati per farlo. Non manca nulla. Tranne la politica.

Perché io, cosa si voglia fare di tutto questo potere, oltre a gestirlo e perpetuarlo, non l’ho ancora capito. Perché il tema della nuova squadra dei trenta/quarantenni alla guida del partito e della Nazione non può esser un banale: “adesso tocca a noi”. Adesso tocca a voi cosa? Tocca a voi stare con Alfano e il suo centro destra, tanto nuovo da saper di stantio? Tocca a voi asfaltare, non come dice Renzi, ma come vuole Lupi, ogni pezzo di territorio rimasto libero con autostrade che rimarranno vuote? Tocca a voi cancellare progressivamente i diritti di chi lavora? Tocca a voi, sì, ma fare cosa?

E non si può nemmeno dire che “queste sono le condizioni”, perché è proprio per cambiarle che uno dovrebbe rivendicare il “tocca a noi”. Invece, con la scusa del concretismo, si giustifica il solito opportunismo persistente, con la teoria che “si fanno le cose che si possono fare e nell’unico modo in cui si riesce a farle”, però con la sola premessa che a farle, appunto, si sia sé stessi.

Il refrain che si sente continuamente dalla nuova classe dirigente del Partito democratico, quella effettiva, quella di complemento e quell’attendente il proprio turno, immagino, e sulla necessità di “prendere in mano il comando”. Non importa se sia quello dei livelli organizzativi di una forza politica, delle istituzioni nazionali o locali, delle amministrazioni del territorio o del Cda d’una partecipata. Soprattutto, non importano le finalità che con quel comando si vogliono perseguire, semplicemente perché il fine ultimo è il comando medesimo.

Se era per fare le riforme che piacciono a Sacconi e non fare quelle che dispiacciono a Giovanardi, a che è servito cambiare parte dei protagonisti? Se parlare di riduzioni delle spese militari o per opere troppo grandi e molto ricche e provare invece a incrementare quelle per i poveri, fa venire l’orticaria ai chi guida il Pd, a che serve dirsi socialisti e di sinistra? Se il solo pensare che si possa aprire e allargare la partecipazione, attraverso leggi vere discusse in Parlamento, non sui social network, fa saltare sulle sedie segreterie politiche tanto giovani da rischiare d’invecchiarci sulle stesse, a che sono servite le mobilitazioni per le primarie, i gazebo nelle feste di Natale, la continua pratica del confronto e del dialogo?

Se basta trovare la donna o l’uomo giusti per vincere, ed è sufficiente questa vittoria per giustificare l’azione di quell’uomo o di quella donna, allora tutti gli altri a che servono? E infatti: se ne vanno, o non arrivano. Il problema non è il dissenso interno; sono quelli che non ci sono e non intendono più esserci, che non solo non si iscrivono, ma disertano le urne, riempiendo le piazze d’una protesta che non trova risposte.

La riflessione necessaria non è nei termini politicanti della scissione, ma in quelli politici della separazione, fra la rappresentazione istituzionale ed estetica della vittoria e la rappresentanza reale e continua di quelli che fanno i conti con la difficoltà d’essere sconfitti, dalla storia che scrivono i vincitori e nella società che esclusivamente di questi celebra i fasti.

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