E se si votasse?

Sui giornali di questi giorni e nel dibattito politico interno al Pd, in molti non escludono (e tanti, al contrario, ne parlano apertamente) un ritorno alle urne. Certo, ci sarebbe da capire con quale legge e quale sistema, ma è indubbio che il tema è sul tavolo, portato sia da coloro che invocano le elezioni per far chiarezza sullo schema politico e programmatico, sia da chi le evoca come meccanismo di punizione e per dare corso a un generale e approfondito repulisti e liberarsi, attraverso quelle, di dissidenti e intoppi di vario genere e natura.

Bene o male che si giudichi questa situazione, essa pone più problemi alle minoranze che alla maggioranza del partito. E non perché siano a rischio i loro posti elettorali ed elettivi presenti e futuri, non solo per questo, almeno. Quelle eventualità e quelle spartizioni di poltrone, seggiole e sgabelli, riguardano, al massimo, i potenzialmente interessati; che non è poco, ovvio, ma non è tutto.

L’intero mondo culturale e politico  che intorno a quelle posizioni s’addensa e in esse si riconosce, dinanzi a uno scenario elettorale, potrebbe andare, quanto meno, in forte difficoltà. Perché, o le affermazioni e le valutazioni critiche intorno alle scelte di governo e politiche fatte da Renzi come presidente del Consiglio e quale segretario del partito erano solo estemporanee ed estetiche, sanabili con qualche posto sicuro e qualche postazione anche solo promessa, oppure esse erano reali e radicali, e allora non tornano alcune cose.

Per dire, si è aspramente criticato, e con toni particolarmente duri, un passaggio fondamentale per l’azione di una forza politica che si riconosce nel Pse e nella tradizione del socialismo e del progressismo europeo, come quello della riforma del lavoro.

Oppure, si sono condannati, e con accenti seriamente preoccupati e preoccupanti, i tentativi di riscrittura della Costituzione nata dalla Resistenza, i pericoli, soprattutto per il combinato disposto con una legge elettorale fortemente maggioritaria e a liste bloccate, per le eventuali derive autoritarie del modello che si sarebbe venuto così a definire.

E ancora, è stata avversata, e con vigore, la gestione interna dell’organizzazione, mettendone in discussione anche la stessa democraticità, emblematicamente fino a dire direttamente al segretario che, se s’intendesse continuare a dirigere in questo modo il partito, tanto varrebbe cambiargli pure il nome, togliendo quel vincolante “democratico”.

Di contro, la maggioranza ha sempre respinto queste osservazioni con la sufficienza determinata dai numeri, derubricandole a invidie di chi non conta più nulla perché più niente rappresenta e arrivando al punto di pensare di scrivere un documento ferreo e vincolante da far approvare all’Assemblea nazionale, organo rappresentativo degli iscritti, trasformandola in congresso permanente in cui contarsi sapendo già chi conta (nel caso, da componente di quell’assemblea, non mi presterò al computo, sottraendomene, e quando sarete felici e contati, saprete d’esser quali e quanti siete; auguri).

In tutto questo contrapporsi di posizioni inconciliabili in modo plastico (e sedicente), c’è un piccolo residuo di coerenza? Perché se c’è, gli uni non dovrebbero mai chieder il consenso agli altri, e i secondi, men che meno, concederlo ai primi.

Fuori dai giri di parole, quelle contrapposizioni sono reali? Sì? Allora, che senso ha continuare a fingere di poter sostenere azioni e idee che non si condividono e, anzi, si osteggiano apertamente e in radice. Non lo sono? Qualcuno mi spieghi, dunque, perché continuare a spiegarle ed esporle in articoli, interventi, assemblee, comizi, incontri, convegni, eccetera, eccetera, eccetera.

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