Da Ferguson a Tor Sapienza

C’è un sottile, quanto evidente, fil rouge che unisce le drammatiche immagini delle devastazioni a Ferguson, sobborgo di Saint Luis, in Missouri, e le proteste e le agitazioni che ci sono state nei giorni scorsi a Tor Sapienza, a Roma: quello dell’essere periferie.

Una periferia non è solo una zona abitata lontana dal centro. È un’indolenza senza sogni, è disperazione che ignora altre possibilità, è la chiusura dell’orizzonte praticabile al di là del cemento che ne chiude la vista, oltre il cavalcavia che limita lo sguardo, più avanti del nastro di asfalto che corre a separarla dal resto del mondo, fra buche piene d’acqua a ogni pioggia e sterpi e rovi che mangiano i bordi delle carreggiate.

In un caso e negli altri, il portato razziale è solo un epifenomeno, che nasce dalla disabitudine al confronto, dalla violenza dei rapporti quotidiani, dalla durezza e dall’asprezza delle realtà in cui si è costretti a vivere. Quando si cresce come in cattività, quando le speranze si riducono alla sopravvivenza, quando non si immagina altro futuro che la prosecuzione di un misero presente in una provvisorietà che si eternizza, si rischia di diventare cattivi.

Non è solamente una questione urbanistica, è una questione sociologica, e prim’ancora politica. Quella politica che delle periferie, semplicemente, se ne disinteressa, citandole al massimo nei segnali degli svincoli sulle tangenziali, tutta incentrata organizzare kermesse e pedonalizzazioni in centro, lo stesso da cui quei periferici si sentono esclusi. E contro cui si ribellano, apertamente, quando riescono, o ricambiandone il disinteresse, tutte le volte che possono.

Il centro e la periferia sono due mondi che han smesso di dialogare, e forse parlano anche lingue diverse. La lingua che pensa al domani, il primo, quella che maledice l’oggi, la seconda. Perché, non c’è alba che non sia pensata come la trita e stanca ripetizione dei giorni che muovono al tramonto per quanti sono nati lontani, nel tempo se non nello spazio, dai luoghi in cui c’è ancora il diritto alla speranza.

Nel giudicare quegli scoppi d’ira, si nota subito la loro violenza, quasi finale, ferale. Con le parole di Carlo Levi, quella “loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione”. Già, e alla disperazione non si parla, soprattutto se chi dovrebbe farlo, continua a pensare, magnificandole, alle proprie fortune, allontanando nelle loro miserie quella povertà che non offre spunti di propaganda spendibili.

Ma che esiste. E la si incontra ogni giorno, se solo si ha voglia di guardarla in faccia, e non archiviarla senza nemmeno affannarsi nel provare a capirla, non dico a spiegarne cause, ragioni, motivi. E vive, in quelle periferie in cui l’unica attesa è la partenza, che forse non arriva mai, o forse sempre, ma comunque segna il limite di una salvezza che esiste solo, ed esclusivamente, come soluzione individuale, del più forte, o semplicemente del più fortunato, perpetuando anche in quella la dimensione presociale e prepolitica che fa di quelle aree un luogo a parte, slegato, separato.

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