La democrazia è inclusione, altrimenti non è

“Il Governo non tratta con i sindacati sulla legge di Stabilità”, manda a dire Renzi attraverso le telecamere di Otto e mezzo ai tre segretari confederali, che nella mattinata di lunedì avevano incontrato una rappresentanza dell’Esecutivo proprio per discutere di quel provvedimento.

Insomma, se la Camusso o altri vogliono discutere il contenuto delle norme, si facciano eleggere in Parlamento e le giudichino, e votino, da deputati o senatori; fino a quando loro saranno fuori e gli altri dentro, se ne facciano una ragione. E con essi, tutti quelli che pensano che la democrazia sia partecipazione continua, e non solo all’appuntamento elettorale, dei cittadini al governo della cosa pubblica. Una democrazia che, secondo Renzi, diviene invece una forma come un’altra d’investitura dei potenti; una volta votato, ci vediamo al prossimo giro.

Certo, è la forma migliore che, anche in quell’accezione, si conosca, perché almeno serba in qualche modo l’apparenza della contendibilità del potere. Ma non prevede la partecipazione, diventando la gestione del governo e delle forme della rappresentanza esclusivo appannaggio e affare del ceto degli eletti. Gli altri possono scegliere se votarli o meno, non di più.

Ovvio, possono anche candidarsi e magari vincere loro. Però, insomma, siamo seri; non è che tutti devono fare quel mestiere, e lo dice anche Renzi, quando spiega ai sindacati che il loro ruolo non è quello di scrivere le leggi. Cosa che, peraltro, dicono gli stessi sindacalisti; non si capisce perché, allora, quando le cose vanno come vanno per colpa delle leggi che ci sono, vedi la precarietà, la responsabilità viene data ai sindacalisti che nel luogo dove si approvano le leggi non ci sono mai stati. Ma questa è un’altra storia.

Il problema più grosso, per Renzi e per quanti la pensano come lui, è che la democrazia proprio non se lo può permettere di essere esclusiva, ma deve cercare di essere inclusiva il più possibile. Deve cercare di contenere nel suo perimetro la più ampia rappresentanza, proprio per evitare che qualcuno si senta escluso e smetta di partecipare. E la rinneghi.

Come una forte idea che ignori il suo potere seduttivo, la democrazia promette tanto a quelli a cui si rivolge. Così rischia di tradire troppo quelle aspettative, ingenerando disillusioni o vere e proprie frustrazioni. Le prime, spesso, si traducono nell’abbandono, nella diserzione dal consesso civile. O nel cinico disincanto, un po’ come nelle parole di don Ciccio Tumeo, l’organista di Donnafugata, che ne Il Gattopardo lamentava non il fatto che il proprio volere fosse stato ignorato, ma che l’avessero anche gabbato con la farsa delle elezioni.

Una reazione amorale, e se vogliamo prepolitica, che però al potere istituzionalmente inteso, e ai suoi canali costituzionalmente organizzati, non dà alcun fastidio, quando non li favorisce direttamente nell’attuazione del loro progetto: i seggi e i posti di governo si assegnano sui voti validi, e chi si astiene o non partecipa, alla fine, fa pure un favore a quanti devono spartirseli.

Se mai, il rischio è nelle dinamiche che possono innescarsi fra coloro che in quella contendibilità concreta e in quella partecipazione reale ci credono e vogliono trovare un proprio spazio di agibilità. Per chi pensa che “lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte”, non essere contemplati da coloro che ne gestiscono le sorti, e non far parte di quei processi di gestione, non è né sarà mai un problema. Ma per quanti, a quella promessa di partecipazione credono o hanno creduto, l’arroganza di un potere che si erge a esclusivo interprete delle cose da fare, può divenire indigesta, e ciò è potenzialmente pericoloso. Soprattutto se, nel suo essere arrogante, quel potere evoca la necessità di “un cambiamento violento” per scuotere un sistema troppo irrigidito.

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