I padroni non sbagliano mai

Se la disoccupazione non scende è colpa delle rigidità del mercato del lavoro. Se non ripartono le assunzioni è colpa delle tutele eccessive dei lavoratori. Se la produttività è al palo da anni è colpa dei sindacati. Insomma, gli unici che non hanno mai colpa sono loro, i padroni.

E non affannatevi a spiegarmi che sono imprenditori, datori di lavoro e che padroni è termine antico. Perché nei fatti lo sono (sarà pure di qualcuno la proprietà delle aziende, no?), e molti pure nei modi (come li chiamate i Riva? Quelli che delocalizzano perché non possono più sfruttare a piacimento gli operai e gli impiegati già sfruttati? Coloro che possiedono quei campi di pomodori in cui, letteralmente, si muore di fatica?).

Pensiamo a come sono organizzate le aziende in Italia, e vediamo se è tutta colpa di chi ci lavora e di quel residuo veterosocialista che è lo Statuto dei lavoratori. Parlando di produttività, qual è la media di investimento nel nostro Paese in ricerca e sviluppo? Fra le più basse d’Europa, avete indovinato. Ma non è tutta e solo colpa dello Stato, anzi.

Il pubblico, in Italia, sostiene la ricerca e lo sviluppo tecnologico per una quota superiore al 40% del pur basso totale investito in rapporto al Pil, mentre la Germania si attesta al di sotto del 30, tutto il resto sono fondi privati. Dove veramente crollano quei dati, infatti, è nel rapporto sul prodotto interno lordo dell’investimento fatto dalle imprese, che si ferma intorno allo 0,5% in Italia, mentre veleggia fra il 2% e il 4% in Paesi quali  Svezia, Danimarca, Finlandia e la già citata Germania (interessante, in questo senso, dare un’occhiata al focus su Ricerca e innovazione pubblicato lo scorso anno dall’Istat).

Ancora, il dato patrimoniale delle imprese italiane fa emergere altri aspetti interessanti. Mentre in Francia è il 24%, in Germania il 28 e in Gran Bretagna il 44, il capitale proprio investito dagli imprenditori nelle loro aziende nel nostro Paese è pari al 15%, il resto è debito (in effetti, leggendo questo dato, “padroni” pare un termine eccessivo). Oltre a non investire proprie risorse, i nostri imprenditori non sono nemmeno molto propensi a ricercare finanziamenti in Borsa, schiacciando verso il basso l’intera patrimonializzazione delle loro imprese; difficile correre se si è deboli, non vi pare?

Infine, anche se non ci sono dati statisticamente rilevabili, per ovvi motivi, l’altro fenomeno “azzoppante” del sistema industriale italico è la forte propensione al familismo all’interno delle aziende e la commistione fra imprenditori che, in teoria, dovrebbero essere concorrenti. Leggendo le cronache delle cordate maggiori, si scoprono sempre gli stessi nomi, così come il tratto familiare all’interno della piccola e media impresa ha spesso la meglio anche sulla qualità del lavoro e sulle competenze. In fondo, nel nostro sistema, più che le competenze contano i contatti, e nel privato, forse stupirà i cultori della meritocrazia, ancora più che nel pubblico.

Lobbisti, faccendieri, ammanicati, sono i veri dominatori della scena, e quelle qualità valgono e pesano molto di più della capacità di innovare, fare ricerca o stare con le proprie gambe sul mercato. Una classe imprenditoriale che ha fatto della compressione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori, non solo l’unico mezzo usato per tentare di competere, ma anche lo strumento caratterizzante della propria affermazione, come chiamarla se non padronale?

Non sono tutti così certo, e ci sono anche delle mirabili e positive eccezioni. Ma sono tali, appunto. Così poche da fuggire anche la ricerca della notorietà, “onde evitare guai”, si potrebbe pensare con buona probabilità di prenderci sul serio.

Di tutto questo, la politica, specialmente da sinistra, potrebbe interessarsi. Invece, proprio da sinistra, la politica continua a perseguire l’idea che l’occupazione possa ripartire solamente eliminando diritti e tutele per i lavoratori, combattendone la rappresentanza sindacale, riducendo i salari e rendendoli il più possibile precari. Un modello che si dimostra errato alla prova dei fatti, ma che viene continuamente riproposto, in un’allucinazione collettiva per cui si crede, usando l’immagine evocata da Einstein, che la ripetizione delle medesime ricette possa dare, alla fine, risultati differenti.

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