Marchionne sta con Renzi, senza se e senza ma. Però…

Verrebbe da sorridere per la corrispondenza di amorosi sensi e lo scambiarsi dei complimenti, quasi con la medesima scelta dei temi e delle parole, di sicuro con la coincidenza dell’argomento e in parte, se non del tutto, dell’approccio.

Di certo, l’apertura dell’amministratore delegato del gruppo Fiat-Chrysler verso la riforma del mercato del lavoro pensata dal presidente del Consiglio, ricorda da vicino le parole dello stesso Renzi nei confronti della visione di gestione delle fabbriche, quel lapalissiano “sto con Marchionne, senza se e senza ma”.

Il manager rende il favore al premier? No, è che proprio collimano le due weltanschauung. Non tanto e non solo le loro idee in relazione ai rapporti fra capitale e lavoro, ma proprio le rispettive considerazioni sul funzionamento dei meccanismi di gestione del potere. Le due visioni del mondo di Marchionne e Renzi, prima e oltre che coincidere sul tema dell’organizzazione dei rapporti lavorativi, convergono sul piano del come si intendono le funzioni di governo e amministrazione.

Per entrambi, infatti, chi è chiamato a guidare un’organizzazione, sia essa una multinazionale, uno Stato o il supermercato sotto casa, decide il da farsi, senza perdere tempo nel discuterne gli aspetti con altri, definisce un progetto esecutivo, lo tara in base alle aspettative dei propri stakeholder, gli azionisti di un’azienda o gli alleati di una coalizione di governo, e lo presenta a quelli che con questo dovranno fare i conti come proposta ultimativa: prendere o lasciare.

È come se fosse un limite oltre il quale la loro cultura gestionale non sa andare: il Ceo di Fca come il segretario del Pd, dicono in sostanza che il loro non è il miglior punto di vista in assoluto, ma l’unico possibile nella condizione contingente che vede loro alla guida del processo. Essi non sono governanti adattativi, ma impongono l’adattamento sul loro modo di agire alle strutture che governano.

Da una parte, sono preferibili per molti aspetti a quei politici o capitani d’industria che si pongono in maniera funzionaria rispetto a qualsiasi scenario: possono approvare le tesi della destra e quelle della sinistra, essere per la riduzione della precarietà per i lavoratori, ma anche per dare più flessibilità per favorire le imprese, a governare la fabbrica contro i sindacati, e pure a cercarne il favore blandendo le velleità di vertici e dirigenti.

Dall’altra, pongono un problema immenso quando s’inseriscono all’interno di un processo democratico che si racconta, e si immagina, come partecipato e partecipativo. Perché in quell’orizzonte, le decisioni e le scelte sono davvero condivise e condivisibili se tale è stato il percorso che ha portato alla loro formazione e definizione.

Qui sta la differenza fondamentale tra il ruolo del premier e quello del manager. Se nella fabbrica è possibile in un certo qual modo imporre il modello più funzionale alla produzione, anche se dovesse essere il più autoritario (in quest’ambito, è importante notare che l’importazione di modelli tipici dei sistemi aziendali orientali sia conciso con la deriva verso i modelli autoritari di quelle società, giustificando entrambe con la narrazione mitopoietica dell’efficienza), con alti livelli di accettabilità e sostenibilità sistemica, semplicemente perché tale aspetto, seppure importante, non è totalizzante nella vita di ognuno, ammettendo sempre un’alterità di situazioni nel vissuto del singolo, nella società reale questo non è altrettanto praticabile.

E non lo è per la semplice considerazione che un’altra società non la si può vivere come rapporto individuale rispetto a quella data, e quindi se della fabbrica mi posso sentire alieno, recuperando la mia dimensione di partecipazione in altri luoghi, quando dovessi vivere quel sentimento di estraneità rispetto al processo che conduce alla determinazione delle regole comuni, non avrei altro posto dove ritrovare la mia dimensione di appartenente a un consesso sociale.

Però, a questo punto si apre un problema di riconoscimento. Non tanto nel riconoscere come legale quello che viene deciso dai governanti, e nemmeno di porre problemi di legittimità, ma del riconoscersi come appartenenti al sistema che quelle decisioni ha prodotto. Perché, nel contratto sociale, la clausola “prendere o lasciare” non è contemplata, perché lasciare significherebbe rescindere quello stesso contratto, e quindi prendere non sarebbe più scelta, ma obbligo. Di fronte al quale, in molti, potrebbero perseguire la via dell’abbandono e del non sentirsi più vincolati ad un patto liberamente accettato. In quest’ottica, l’astensione elettorale che sempre più si registra, potrebbe non essere l’acme della malattia, ma solo primo sintomo dell’ammalarsi.

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