La fame non si vede, ma in tanti la sentono

“Con tutti i problemi che abbiamo, la crisi, l’economia che non va, la disoccupazione, tu vorresti occuparti anche della fame nel mondo?”. Beh, sì. Perché quella, la fame, è grande. Ed è grande pure il mondo, così tanto da arrivare persino in Italia, pure dietro casa nostra. Come la fame, appunto.

Dal 2007 al 2013, l’Istat rileva che le persone in povertà assoluta, cioè quelli incapaci di sostenere la spesa media per abitazione, vestiario e cibo, sono passate da 2,4 milioni a sei. 6 milioni: quanto la popolazione dei comuni di Roma, Milano, Napoli e Torino messi insieme. Il Governo, nella richiesta di aiuti inviata a Bruxelles, stima che la percentuale di persone non in grado di assicurarsi un pasto proteico adeguato ogni due giorni sia salita dal 12,4% del 2011 al 16,8 dello scorso anno. E secondo il Banco Alimentare, nel 2014 quella percentuale sta ancora aumentando. Immaginate quanti sono i bambini contenuti in quel numero, anche quelli in età compresa fra zero e cinque anni, quando la malnutrizione può causare danni irreversibili allo sviluppo delle facoltà mentali.

Ho catturato la vostra attenzione? Bene. Ora, a fronte di tutto questo, non solo l’interesse dei grandi organi di informazione e quello di tutti noi, me compreso, non sono propriamente centrati sul tema, ma le risorse per far fronte al problema vengono ridotte.

Siccome, purtroppo, la fame non è mai sparita, in Europa dagli anni ’80 c’è un programma di aiuti alimentari collegato alle politiche agricole. Anzi, c’era. Perché, nel 2011, Austria, Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Svezia, hanno ricorso presso la Corte di giustizia, sostenendo che l’aiuto alimentare non spettasse all’Unione, ma ai singoli Stati. Va da sé che le Nazioni più colpite fossero anche quelle con meno risorse per far fronte all’emergenza. Ma la giustizia non è grazia, e quindi la Corte ha dato ragione ai ricorrenti.

Bloccata dalla sentenza dei giudici del Lussemburgo, la Commissione europea era riuscita a trovare margini di azione nei fondi strutturali. Ma anche quella via è stata bloccata dagli stessi Stati rigoristi, fino a quando non si è giunti ad una soluzione alternativa, e cioè che i fondi messi a disposizione dell’Ue per gli aiuti alimentari, sempre meno, potessero essere, per le relative parti, usati dai governi nazionali per far fronte alle esigenze della popolazione più indigente, e da quelli che non ne avessero bisogno, perché già sufficienti quelli dei rispettivi piani di welfare, per interventi di diversa natura. Insomma, li diamo a tutti, pure a quelli a cui non servono, mentre mancano dove servirebbero di più.

In tutto questo, in Italia il programma sta viaggiando con molti rallentamenti per una serie di complicazioni e inefficienze, come spiega bene Federico Fubini su la Repubblica di domenica 21 settembre, e il risultato è che l’intero meccanismo degli aiuti rischia di avviarsi con nove mesi di ritardo. Immaginate cosa significhi, visto che si parla di fame, e non per modo di dire.

“Già, ma c’è la crisi, e nei periodi di recessione è normale che quel tipo di problemi s’ingigantiscano”. Sì. E no. Durante la Grande Depressione, gli Stati Uniti vararono un programma di sussidi che comprendeva anche i Food Stamps, dei buoni per garantire, almeno, la possibilità di avere qualcosa da mangiare, e che ci sono ancora oggi. Noi, in tutta Europa, non abbiamo nulla di simile, e riduciamo i fondi per l’assistenza proprio quando servirebbero di più.

Inoltre, la crisi non è buona per tutte le spiegazioni. Soprattutto perché, nello stesso periodo in cui il numero di coloro che avevano difficoltà a mangiare triplicava, cresceva significativamente anche quello dei ricchi e l’ammontare delle loro ricchezze, secondo quanto rileva il rapporto di Wealth-X e Ubs sui grandi patrimoni, ripreso nei giorni scorsi da il Sole 24 Ore.

Il contrasto fra questi due dati, però, è la cosa che mi preoccupa di più. Se da un lato smaschera la natura vera del capitalismo contemporaneo, che è quella solita, in cui ai ricchi, semplicemente, non importa nulla dei poveri, dall’altra espone al rischio che la fame, nel senso letterale, finisca con alimentare climi di tensione ingestibili.

Se la redistribuzione non funziona più come dovrebbe, il timore non è che riprenda il conflitto sociale, che è connaturato a ogni sistema, ma che esso venga sostituito dal rancore. Quello che deriva della perdita della speranza, quello che non ispira rivoluzioni e non sostiene riforme, ma a volte può animare “una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione”.

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