E falla ‘sta prova di forza. Almeno per chiarire

La logica relazione per cui i problemi della disoccupazione siano colpa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sinceramente, mi sfugge. Come quella per cui, se ci sono iniquità di trattamento fra precari e garantiti, la soluzione unica sarebbe eliminare le garanzie per i secondi, e non estenderle anche ai primi. O ancora, quand’anche volessi provare a dar ragione a quella tesi, mi sfugge il nesso di consequenzialità fra l’affermazione “basta apartheid fra i lavoratori” e la previsione di togliere un diritto solo per i neoassunti, seppure tutti, i quali, ancora e di nuovo, si troverebbero a vivere una situazione di disparità rispetto ai loro colleghi assunti prima, a meno che non sia in programma un’eventuale riforma bis che tolga pure a questi le tutele già conquistate.

Ma la fine delle ideologie s’è portata dietro anche quella della razionalità, del principio di non contraddizione e della consequenzialità logica. Per cui, Renzi può affermare, apprestandosi a fare la sua riforma insieme a quelli che delle condizioni attuali sono responsabili, avendo voluto e votato leggi che hanno ridotto il mercato del lavoro a un caporalato moderato, che la colpa del fatto che esistano decine di forme di contratto utili solo a determinare il più squallido precariato lavorativo e senza alcun rispetto per la vita delle persone, perché è di quello che stiamo parlando, non è di chi quelle norme le ha fatte, ma di chi non ha avuto la forza di opporvisi (anche perché chi doveva dare una mano, spingeva al contrario alleandosi culturalmente, prima che politicamente, con quelli che quel disastro realizzavano), o con coloro che hanno provato a difendere le sempre meno garanzie per i sempre più pochi che le avevano.

Insomma, sembra dire il presidente del Consiglio: “caro precario, se quella è la tua condizione, non prendertela con chi l’ha resa possibile, ma col tuo collega che è un po’ meno precario di te”. E non dice affatto, a quel lavoratore a tempo, “farò in modo che tu fuoriesca dall’arbitrarietà della tua condizione, portando anche te al livello delle tutele del tuo collega”, ma “da domani, nessuno sarà più tutelato di quanto sarai tu; nemmno te stesso”. Cioè, sovvertendo la logica dell’uguaglianza nel progresso, non dà la speranza che il precariato finisca con la possibilità di approdo al regime di tutele che oggi garantiscono i lavoratori a tempo indeterminato, ma lo rende condizione esistenziale, promettende che nel futuro lo saranno tutti, realizzando la parità sul piolo più basso della scala egualitaria.

Il dramma, come dicevo, è che questa logica difforme non grida vendetta al cielo, perché totalmente disinserita da un quadro ideologico e immersa in un apparato retorico che non si perita di spiegare le sue ragioni di pensiero potendo contare, e con efficacia, sulle sole ragioni della forza: “è così perché è così; prendere o lasciare”.

Un modo certamente poco politico di affrontare le situazioni, ma non del tutto dannoso. La segretaria generale della Cgil Susanna Camusso ha definito il Jobs Act renziano e i modi con cui viene portato avanti “degni della Thatcher” (della quale, ovviamente, a furia di invocarne il motto “there is no alternative”, s’è finito per evocarne lo spirito). Importanti pezzi della sinistra del Pd, da Bersani a Fassina e fino ad Orfini, hanno attaccato duramente l’impianto della riforma disegnato dal Governo, definendolo “uno svoglimento sbagliato di un tema fondamentale”, “fuori dalla realtà”, “di destra”.

A questi, Renzi risponde di non voler arretrare di un millimetro rispetto alla sua volonta e alla sua visione di cambiamento. In pratica, punta su quelle ragioni della forza che si diceva, o dei numeri, per far passare le proprie idee. Anche per decreto, ha lasciato intendere, pure ponendo la questione di fiducia in Parlamento, in tanti hanno interpretato.

Una prova di forza utile? Beh, in un certo senso, sì. Se non altro a chiarire alcune cose. A lui, di spiegare cosa voglia davvero fare del mercato del lavoro, così lo sappiamo tutti, e sappiamo come regolarci nelle varie situazioni, elezioni comprese. Agli altri, di uscire dall’ambiguità dei tanti “sì, ma, però, forse, anche no”, e toranre a quel parlare lontano dal maligno, per riprendere un più alto discorso, non solo perché pronunciato sulla montagna, fatto di “sì, sì, no, no”.

Renzi, e chiedilo questo voto di fiducia sulla possibilità di demansionamento, di telecontrollo, di superamento della possibilità di reintegro per i licenziati senza giusta causa. Se te l’accordano, avrai realizzato il tuo progetto; se no, andrai a casa. In entrambi i casi, noi avremo capito, rispetto a quei temi, chi sta da una parte e chi dall’altra.

Chi sta dalla parte delle cose che si sono sempre dette, dal voler estendere le garanzie a tutti, non di parlare di tutele crescenti iniziando a eliminarle, di quei valori per cui, insieme, siamo scesi in piazza e sui quali, insieme, abbiamo chiesto i voti, e chi sta dalla parte del continuo attacco ai diritti dei lavoratori, di una riforma che piace tanto ai potenti e al Fondo monetario internazionale, che non dimentica di ricordare che subito dopo serve un taglio a pensioni e sanità, welfare e servizi pubblici, di quelle tesi contro cui, insieme, siamo scesi in piazza e contro le quali, insieme, abbiamo chiesto i voti.

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