Ah già, i disoccupati

“Perché l’urgenza sono le riforme, quelle che l’Italia aspetta da vent’anni, quelle che chiede l’Europa, quelle che la vecchia politica non è mai stata in grado di fare. E quindi è necessario riformare il Senato, perché è meglio che i senatori non siano eletti, e poi ‘sto bicameralismo perfetto: che barba. E ancora, la legge elettorale, ovvio, perché la sera delle elezioni si deve poter sapere il nome del vincitore. E la riforma del processo civile, vuoi farne senza, e il semestre di presidenza europea, che è fondamentale e fra poco finisce, e il Jobs Act che fa ripartire l’occupazione subito, e i mille giorni, e lo sblocca Italia che non sblocca, e lo shock scuola che non shocka…”.

“Dannata Istat, ancora tu, ma non dovevamo vederci più? Che uno già si organizza con i tweet belli, aggiustati e pronti, e tu ne esci con questa storia della deflazione per la prima volta dopo 50 anni. E ancora, i disoccupati, e li dividi pure fra dati trimestrali e mensili, solo perché così puoi mettere due post sul tuo sito e spaventare la gente che crede in noi e ha fiducia nelle riforme…”.

E no, così non funziona. E non lo dico perché sono un gufo rosicone e paludoso, no. Perché proprio non funziona. E l’Istat non è un blog irrilevante come questo, e i numeri sono quelli lì. La deflazione c’è sul serio, e la disoccupazione cresce ancora, nei report mensili e in quelli trimestrali. E se c’è la febbre non è colpa del termometro, e forse non bastano nemmeno gli antipiretici, se non si cura l’infezione.

Perché, diciamoci la verità, al di là della confezione nuova, la politica che viene da palazzo Chigi è roba vecchia, che pretende di curare i mali della scarsità di occupazione con le ricette che seguiamo da trent’anni, e che puntualmente, anche stavolta, il Parlamento approva col giubilo di quelli che ieri si dicevano di sinistra, e forse pure oggi, agendo con provvedimenti da giuslavoristi dove servirebbero azioni da politici. Perché è la politica a mancare, sebbene ogni giorno se ne dichiari il ritorno al primato, la capacità di prendere le decisioni contrarie ai venti di mainstream che spirano dai piani alti della finanza, di dire, una volta per tutte: “banchieri, avete un problema. Noi finanzieremo un piano di interventi ad alta intensità di lavoro, anche in deficit, e che vi piaccia o meno; fatevene una ragione”.

Invece, quella ragione in forma di hashtag dovrebbero farsela, secondo i governanti, i lavoratori che diventano sempre più precari e le organizzazioni e i soggetti che cercano, fra limiti e difficoltà, di rappresentarli.

“Però, cala lo spread e i mercati vanno bene e se non vanno bene è colpa delle guerre, che poi se scoppiano, possiamo sempre vendere e comprare armi, così sale il Pil: cosa volete di più. Il Governo vince le elezioni, le opposizioni sono impresentabili, i dissidenti sbertucciati; nulla io vedo che non sia perfetto”.

Ma no, guarda, non è così. Perché il fatto che l’economia finanziaria registri risultati positivi mentre i lavoratori, i sempre di meno che ogni giorno rimangono, debbano rassegnarsi a una continua contrazione di salari e diritti, dimostra solo che gli interessi fra capitale e lavoro sono tutt’altro che conciliati nella grande unica narrazione possibile del non ci sono alternative perché sono finite le ideologie, e mentre il primo s’arricchisce ancora, il secondo soffre come mai era accaduto prima. Perché se gli indici dei valori salgono, quelli dei lavori calano così tanto che il numero dei disoccupati cresce di 1.000 al giorno…

“Ah già, i disoccupati. Che noia, tutte le volte fra i piedi questi qui: ma quanti sono?”.

Sempre di più. Purtroppo.

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