È partito il treno delle riforme. Ed è un Tav

“Parliamo con tutti, ma il treno delle riforme ormai è già partito”. Lo ha detto Renzi, rispondendo a chi gli chiedeva se e quando avrebbe incontrato il M5S per un ulteriore confronto sulla legge elettorale.

Quel treno, dunque, è partito. Ed è un Tav. No, non nel senso che va veloce a destinazione e senza troppe fermate intermedie. Anche perché, per il momento, del treno delle riforme abbiamo solo sentito il fischio del capostazione e visto i saluti dei parenti con i fazzoletti sulle banchine, ma di muoversi ancora non se ne parla, né è detto che arriverà mai davvero da qualche parte.

È un Tav, invece, nel senso che l’approccio che si ha con le riforme è lo stesso che si ha per la realizzazione della ferrovia ad alta capacità più famosa, quella in Val di Susa (e pure in questo caso, la velocità la misureremo e nessuno ci assicura nemmeno sul raggiungimento della meta).

Per scavare un tunnel sotto le montagne, si militarizza il cantiere dei lavori e si procede senza perdere altro tempo in confronti su di un’opera di cui si può discutere di tutto, tranne che della sua realizzazione. Per modificare la Costituzione, si blinda il testo del Governo e si va avanti senza concedere spazi al dissenso su di una riforma che può essere limata nei dettagli, ma non rivista nel suo impianto.

Qual è il parallelo? La pretesa del manovratore di non essere disturbato. Non essere disturbato dalle comunità valligiane piemontesi e da quanti si oppongono a quella ferrovia, non esserlo dai parlamentari e da chi la pensa diversamente sul Senato e sull’Italicum. Un parallelo che, se vogliamo, ritroviamo in molte altre occasioni, dall’accusa di immobilismo e di essere nemici del cambiamento rivolta a tutti coloro che non plaudono estatici a ogni slide diffusa da Palazzo Chigi, fino alle parole che il suo inquilino ha consegnato a Maria Teresa Meli in un’intervista apparsa sul Corriere della Sera del 14 luglio. “È impossibile”, ha confidato Renzi alla giornalista, “andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini”.

A parte la banale considerazione che, se davvero l’estrazione di petrolio potesse dare le occasioni occupazionali di cui parla il capo del Governo, la Basilicata, che è fra le prime produttrici di greggio in Europa, non sarebbe pure fra le prime regioni del continente a soffrire per il fenomeno dell’emigrazione dovuta alla mancanza di lavoro (non mi perdo nell’elencazione di dati e statistiche, ma, se mai il premier volesse, potrei elencargli i nomi dei già partiti e di quelli che stanno per seguirli, per parafrasare le parole con cui l’allora sindaco di Moliterno, un comune proprio di quella valle dell’Agri in cui oggi si estrae l’oro nero, Vincenzo Valinoti Latorraca, salutò il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli durante la sua visita lucana del 1901, come ricorda Antonio Margariti in America! America!), già la scelta dei termini e dei toni spiega molte cose.

Chi si oppone sono “tre, quattro comitatini”, di cui viene posta in risalto l’esiguità dei numeri (reale o presunta non importa; il numero dei sodalizi, infatti, nulla dice su quello degli aderenti), e banalizzata l’azione con l’uso del diminutivo. Nello stesso modo, i contrari alle grandi opere sono nemici del progresso, i difensori del ruolo pubblico nei servizi, fannulloni o sindacalisti interessati alle proprie rendite di posizione, i dubbiosi sull’esito delle riforme costituzionali, gufi e rosiconi.

Il fatto preoccupante è che questa sia la Weltanschauung più condivisa. Quelli che non la pensano come la maggioranza, sono visti quali interessati detrattori di chi è chiamato a operare per il bene del Paese, invidiosi, invitati con forza a farsene una ragione dello stato dei fatti e aderire alla visione dominante, quasi che la persistenza e la resistenza nelle proprie posizioni, in quanto minoritarie, fosse di per sé una colpa.

O peggio, come se, in una logica democraticamente distorta, una volta votato e stabilito i rapporti di forza, ci fosse spazio solo per la maggioranza (che quindi, smetterebbe d’essere tale per farsi totalità) e per le sue idee, e fosse ammissibile, accettata e lecita, esclusivamente l’azione politica della sola compagine, del solo partito, del solo leader vincitori delle elezioni. Una successione di parole maledettamente troppo simile ad altre già sentite.

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