Mai un dubbio sulla strada seguita?

“Stiamo strisciano sul fondo, non raccontiamoci storielle”. Il commento più duro, netto e chiaro ai dati sulla disoccupazione diffusi dall’Istat, lo ha fatto ieri il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Quelli registrati nell’ultimo trimestre dall’Istituto di statistica nazionale, sono i numeri peggiori di sempre, da quando esistono le serie storiche dei dati sull’andamento occupazionale.

Nei primi tre mesi dell’anno, la disoccupazione totale è arrivata a toccare un vertiginoso 13,6%, quasi un punto in più rispetto allo stesso periodo del 2013. Il dato relativo ai giovani è drammatico, 46%, e salgono pure, di quasi cinque punti percentuali, quelli che non lavorano e non studiano, i neet (not – engaged – in education, employment or training), che forse di trovare un impiego han perso anche la speranza, mentre il totale dei senza lavoro nel Paese segna un più 200 mila unità rispetto ai primi tre mesi dello scorso anno, raggiungendo la quota dei 3 milioni e mezzo di disoccupati.

Al Sud, poi, il dato è sinceramente spaventoso. I disoccupati arrivano a sfiorare la cifra del 22%, mentre, tra i giovani, sono il 61%. Quando commentiamo i dati sulla partecipazione alla vita civile e politica del Paese, anche solo attraverso l’espressione del voto, ricordiamoci pure di questi numeri: spesso, l’astensione è semplicemente la conseguenza dell’esclusione dal tessuto sociale già avvenuta attraverso la perdita o l’assenza di lavoro, soprattutto per una Repubblica, la nostra, che proprio su quello pone il fondamento della comunità democratica. E se quello non c’è o è precario, assente o precaria sarà pure l’adesione ai valori fondanti dell’ordinamento repubblicano e della democrazia.

La risposta che già si legge nelle parole di molti commentatori, e anche in quelle di chi guida il Governo, è di natura giuslavoristica. Sempre e solamente quella del diritto e delle regole. Renzi vuole che il jobs act sia approvato entro luglio, perché il suo convincimento è che agendo sui meccanismi e sulle norme del mercato del lavoro, quest’ultimo, quasi magicamente, possa rimettersi in moto subito. Basta  aumentare la flessibilità in uscita e in entrata, rivedere le leggi sulle assunzioni, rendere tutti precari et voilà, la disoccupazione non sarà più un problema.

Mai un dubbio sulla strada seguita? Mai s’è presa in considerazione l’ipotesi che fosse proprio questa a essere sbagliata? Mai un tentennamento sulla via che da trent’anni ci ha portati al punto in cui siamo, a colpi di riforme che si scrivevano “semplificazioni” e si leggevano “precarietà”?

E se, invece, ci fosse bisogno di più coraggio? Se ci fosse bisogno di un piano, più che di una serie di leggi, per far ripartire l’occupazione? Se ci fosse bisogno di un rilancio degli investimenti, anche pubblici, e della messa in discussione, più che delle regole, dei tempi e dei modi del lavoro?

Siamo ancora legati a un modello che vede nelle 8 ore quotidiane per 5 o 6 giorni alla settimana l’unico modo di intendere la prestazione lavorativa, mettendo in concorrenza il lavoratore con lo sviluppo tecnologico e di processo, e nella riduzione del costo del lavoro l’unica via per risollevare la produzione, mettendo in concorrenza i lavoratori fra di loro.

Siamo sicuri che sia questa la visione giusta? Perché magari continuiamo a camminare sulla stessa strada convinti di poter arrivare alla soluzione dei problemi, mentre sarebbe necessario ridiscutere proprio la via intrapresa. E magari considerare un altro modello di sviluppo, non legato al ciclo che vede nel distruzione consumistica delle merci l’unico volano per poterne produrre altre, ma che sia capace di ripensare una diversa redistribuzione dei beni e un rapporto con il fare delle donne e degli uomini incentrato sulla cura, delle persone e del territorio, delle istituzioni e dell’ambiente, abbandonando la visione messianica nella grande opera o nel grande evento (a proposito, ne vogliamo parlare?), oppure della riforma epocale capace di risollevare i destini dell’umanità, o anche solo del Paese.

Forse, riscoprendo l’attenzione per chi e cosa c’è già, invece di cercare il modo per consumarlo, potremmo trovare molte più occasioni di lavoro e di produzione, di beni e non solo di merci; prendendoci cura dell’esistente, appunto. E riscoprendo, nel far questo, un’antica e imprescindibile vocazione umana. Con le parole di Caio Giulio Igino: Cura enim quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit.

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