La prossima missione, chiamatela vae victis

Sì, i migranti ci sono ancora. E sono ancora disperati, come sempre. E prendono il mare a rischio della vita. E in quel mare, spesso, capita che ci muoiano. Oggi, a 100 miglia da Lampedusa e 50 dalla Libia, un barcone è affondato. Un altro, perché appena ieri, vicino alle coste africane, un’imbarcazione era colata a picco, portandosi via 36 persone.

Quelli di oggi sono tanti, i morti dico. I testimoni, circa 200 già recuperati e tratti in salvo, raccontano che sulla nave erano in 400. I corpi recuperati, all’ora in cui scrivo, sono oltre una ventina. Se i testimoni han ragione, i conti fateli voi. La cifra completa, tanto, non l’avremo mai davvero, perché il mare, sempre, qualcuno di quei corpi lo trattiene con sé.

Attendo la girandola dei commenti e quella degli impegni. Attendo i “mai più”, gli stessi che abbiamo sentito a ottobre, quando i copri restituiti dalle onde furono 366. Attendo la notizia di nuove operazioni, di nuovi programmi, con missioni dai nomi altisonanti, pronunciati con tono commosso, in latino, come Mare nostrum, che però accoglie i morti degli altri, perché quelli, i morti di disperazione e i vivi appesi alla speranza, non li riconosciamo mai come nostri. Attendo tutto questo, e non mi aspetto nulla di più.

E non ci crederò, perché tanto, quando avremo finito di contare i corpi su una banchina o in un capannone, ce ne dimenticheremo, come facciamo sempre. Piangeremo commossi nel guardare le bare, ancora di più se saranno bianche, doneremo anche i due euro con un sms, e poi continueremo la nostra solita vita.

I migranti disperati verso cui siamo compassionevoli, spariranno dai tg e dalle prime pagine dei giornali, e riappariranno i soliti clandestini in cronaca. Perché quando muoiono ci commuovono, quando tentano di sopravvivere nella nostra e loro quotidianità, ci infastidiscono.

Cercano un lavoro nella drammatica disoccupazione che costringe il mondo a ripensarsi, però consideriamo il nostro un diritto, il loro un furto. Vogliono un tetto sulla loro testa, e sono più poveri di noi, perché altrimenti non rischierebbero tanto, eppure li vediamo usurpatori in quelle case popolari costruite proprio per meno abbienti.

E potrei continuare con gli esempi, ma tanto, a che servirebbe? Noi dobbiamo andar veloci, in questo tempo che cede ogni istante alla dittatura di un presente che si pensa senza futuro, schiacciato sull’oggi dall’esigenza di far presto. Così anche questi morti, domani, saranno un ricordo. Un incidente. Una tragedia che per non dover sopportare, comodamente, dimenticheremo.

I nostri morti per resistere a un sistema che noi stessi avevamo costruito, li consideriamo il diritto di sangue al nostro essere liberi. I morti degli altri per un modello di sviluppo che sempre noi abbiamo voluto, li respingiamo nell’oblio per non doverci fare i conti. E così, i loro sopravvissuti, non potranno vantare nessun sangue versato per gli altri, anche se il benessere del mondo ricco affonda le sue radici proprio nella povertà del loro, e si nutre di quel sudore e di quella disperazione. Un mondo ricco che giustifica lo squilibrio fra chi ha e chi non ha, senza provare scandalo se quell’avere o non avere è riferito al cibo, all’acqua, all’indispensabile, se segna il confine fra la vita e la morte.

Ma qui in terra tutto va così, e così è sempre andato. C’è una guerra tra quelli che hanno di più, e siamo noi, e quelli che hanno di meno, e sono quelli che muoiono nel Canale di Sicilia, o nei deserti, o sui muri e sul filo spinato che sistemiamo ai confini per difendere la nostra sazietà dalla fame altrui.

È una lotta, una battaglia, o una competizione, come la versione edulcorata della lingua intende oggi la sfida fra le diverse parti e aree geografiche. Da un lato quelli che vincono, e si godono i frutti delle vittorie, e dall’altro quelli che perdono, con tutto ciò che ne consegue.

E visto che tutto è competizione e secondo quel vangelo è giusto che il mondo si divida in vincitori e perdenti, se cercate il nome latino per la prossima missione nel Mediterraneo, vi consiglierei di evitare le ipocrisie. Chiamatela, con le parole che Tito Livio pose sulle labbra di Brenno: vae victis.

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