Ich bin ein Auswanderer

“Il 3% è un parametro oggettivamente anacronistico”, ha detto ieri ai parlamentari Matteo Renzi. L’austerity, oggi, viene rinnegata da tutti. E il bello è che chi ne parla male, come il presidente del Consiglio nel suo ultimo intervento alle Camere, prende gli applausi di quelli che ieri la sostenevano.

Già, perché le misure solo tagli e rigore (per tutti, tranne che per chi le approvava, ça va sans dire) non sono mica nate dai movimenti della crosta terrestre. Sono il frutto di una scelta, di una visione politica fatta vessillo e vanto dagli stessi che adesso la stigmatizzano.

Per carità, cambiare opinione è sacrosanto, e anche chi fa politica può farlo. Se però la cambia, o meglio, dice di volerla cambiare, a due mesi dalle elezioni, la genuinità della conversione può apparire meno credibile. Ma forse è solo per un mio personale preconcetto.

Fatto sta che quelli che oggi dicono che molte delle politiche economiche seguite finora erano sbagliate sono gli stessi che ieri le hanno approvate, e più che attendersi da loro una consequenzialità domani, con l’adozione di politiche di segno opposto (a partire dalla cancellazione del fiscal compact), molti potrebbero leggere in questo cambiamento di sentiment un tentativo di sopravvivere alle proprie idee messo in campo dalla stessa élite che le aveva trasformate in atti concreti. Soprattutto se a questa trasformazione di opinioni non corrispondesse una mutazione del paradigma politico dominante.

L’Europa attuale appare solo come una serie di vincoli per mantenere intatto un meccanismo monetario perché così la si è costruita. E così la si è voluta sul piano politico, non su quello dell’economia. O meglio, la politica ha scelto di dare all’aspetto economico il predominio su tutti gli altri. A partire dalla moneta unica.

L’euro, infatti, è un prodotto della politica, che non è nato in conseguenza di motivazioni squisitamente economiche. Anzi, a suo sostegno sono state portate ragioni politiche, peraltro nobilissime. Qui non voglio fare un discorso “no euro”, soprattutto perché, al punto della storia in cui siamo, sarebbe velleitario e inutile. Però i fatti sono quelli che sono, come lo sono i percorsi che si è scelto di seguire.

Quando, quarant’anni fa, i governi europei incaricarono Pierre Werner di predisporre un piano decennale di unificazione monetaria, questi previde che, spinte dalla necessità di perseguire quella unità, le politiche europee avrebbero finito per determinare la creazione di uno Stato unito e imprescindibile. Alcuni economisti, come Nicholas Kaldor, già allora temevano che seguendo una simile strategia si sarebbero potute innescare tensioni sociali dovute alla violenza con cui le politiche di convergenza verso quei parametri avrebbero impattato su alcune economie, soprattutto quelle più deboli, tali da rendere, di fatto, impossibile la coesione necessaria a sostenere l’ideale di uno Stato comune. Ma Werner, invece, e con lui quelli che lo avevano incaricato, pensava che al termine del processo di convergenza, quando i cambi fossero stati definitivamente fissati, il bilancio comunitario potesse essere incrementato, in modo da consentire alla Commissione di affrontare in maniera adeguata i problemi di coesione sociale e quelli legati alla crescita economica dell’area europea (si veda, in proposito, Sviluppo economico dell’Unione Europea e riforma della finanza pubblica, a cura di Vera Palea).

Come è andata a finire lo sappiamo. E a volerla dire tutta, si poteva prevederlo anche quando iniziò il processo di unificazione monetaria. Già una decina di anni prima della decisione di intraprendere quel percorso, il futuro premio Nobel per l’economia Robert Alexander Mundell  (con un articolo sull’American Economic Review che fece storia inaugurando una stagione di studi e approfondimenti: A Theory of Optimum Currency Areas) spiegava che se si mettono sotto una stessa moneta Paesi diversi, in caso di recessione come in fase di crescita, è inevitabile che qualcuno starà meglio e qualcuno peggio. E fin qui, poco male, dato che questa situazione potrebbe essere anche precedente o slegata dall’unità realizzata. Ma se si è in presenza di un cambio fisso a cui non si può derogare, e quindi non si può agire su quella leva, il sistema economico così costituito cercherà di realizzare la propria regolazione attraverso la mobilità dei fattori produttivi. In pratica, si sposteranno le imprese o i lavoratori.

Dal punto di vista di un economista classico, che asetticamente s’approcciasse al problema, tale mobilità sarebbe totalmente gestibile ed indifferente al sistema economico, che anzi attraverso questa troverebbe un proprio meccanismo di riequilibrio.

In un’ottica keynesiana, invece, questa emigrazione di fattori produttivi, imprese e lavoratori, non risolve i problemi, ma li crea. Perché? Perché l’economia, nel mondo reale, non funziona come negli schemi interpretativi di un economista classico e asettico. Infatti, le motivazioni che spingono a cercare diverse condizioni in altri contesti, così come quelle che consentono di rimanere nel proprio, possono non essere strettamente economiche. Per esempio, un’impresa che riesce a sopravvivere nel proprio territorio non sempre deve questo risultato alle proprie capacità di innovazione, ma ciò potrebbe esser dovuto ad aspetti d’altra natura. Così come i lavoratori che lasciano la propria terra per trovare lavoro altrove non è detto che debbano la loro situazione di disoccupazione alla mancanza di competenze o capacità di adattamento. Cioè, a volte, se non spesso, contano tanti, troppi altri fattori che portano al determinarsi della composizione di un tessuto produttivo più per dinamiche di sottrazione che per fenomeni di sommatoria. Un po’ come le classi dirigenti dei piccoli paesi descritte da Carlo Levi, perpetuatesi tali solo grazie all’emigrazione che aveva spinto lontano anche le energie migliori.

In più, visto che in regime di cambi fissi le leve in mano ai regolatori dell’economia per incrementare la competitività sono quella fiscale e quella salariale, alla fine gli effetti si scaricano sempre verso il basso. Perché è chiaro che se la competizione viene fatta sul costo del lavoro, a rimetterci sono i lavoratori, da subito, percependo meno, o più tardi, per la contrazione di assicurazioni e sostegni quando andranno in pensione o se dovessero perdere il lavoro (è bene ricordare che nella composizione del costo del lavoro, molte voci finanziano la pensione o gli strumenti di sostegno al reddito dei lavoratori espulsi dal tessuto produttivo).

Ma si scaricano verso il basso pure gli interventi sul regime fiscale, visto che l’erario che riempie le sue casse con i tributi è lo stesso che poi deve finanziare i servizi pubblici che sono indispensabili proprio per le fasce meno abbienti e per il ceto medio, che altrimenti non sarebbe più tale (certo, la riduzione delle tasse è possibile e perseguibile, specialmente quando la spesa pubblica si perde fra sprechi e corruzioni e la fedeltà tributaria non è pratica diffusa; però, spesso, quando si affronta il tema fiscale e delle spese pubbliche, si assiste a un furore ideologico che ha dell’incredibile, e che solo raramente è giustificato dai fatti).

Perché l’Unione Europea è questa che conosciamo, con i meccanismi che stanno producendo quegli effetti. La politica può agire diversamente? Certo, ma avendo il coraggio di ripartire dalle fondamenta su cui tutto l’impianto è costruito, incentrandosi sui diritti degli europei prima che sui conti delle loro banche. Perché se non si muta quello schema, difficilmente si potranno cambiare le dinamiche e le possibilità di azione politica. Perché se il meccanismo dell’euro, alla fin fine, comporta sempre che i problemi economici scarichino i loro effetti verso il basso, sui salari o sui servizi, ma comunque sui più deboli, diventa, per questi, difficile votare per i partiti che di quello schema si dicono difensori entusiasti.

E se quella difficoltà è vera, sono proprio i partiti di sinistra a scontarne maggiormente gli effetti. Ecco perché Renzi e altri oggi si dicono intenzionati a ridiscutere quel paradigma “oggettivamente anacronistico”, ed ecco perché anche esponenti politici meno eterodossi come Stefano Fassina si pongono la domanda sul ruolo della sinistra nel mondo dell’euro (si veda, in proposito, il suo articolo Titanic Europa?).

Il problema è la credibilità di quelle affermazioni, che non può essere scollegata da quella di chi le fa. Ancora ieri, Mario Tronti, senatore Pd, rifacendosi alle famose parole di Kennedy a Berlino nel 1963, “Ich bin ein Berliner”, ha dichiarato nel suo intervento in Aula seguito alle comunicazioni del presidente del Consiglio: “Oggi dovremmo dire tutti, gridandolo sui tetti anche durante la prossima campagna elettorale: noi siamo europei”.

Già. Ma di quale Europa? Perché di questa, e del fatto che possa cambiare, in molti non si fidano più. E la questione della fiducia è importante. Una volta, un anziano mi spiegò il concetto della fiducia. “Prendi un pugno di sale – mi disse – e tiralo in aria. Facile, no? Bene; ora raccoglilo”.

Quel vecchio mi parlava nella piazza di un paesino lucano, davanti al Monumento all’Emigrante realizzato da uno scultore originario di quel posto ed emigrato, come tanti altri suoi conterranei. Perché quando si parla di “mobilità dei fattori produttivi” si parla di fenomeni come quello dell’emigrazione. E se un sistema si regola su quel meccanismo, allora è un sistema che non sta dalla mia parte, come non sta dalla parte dei tanti per i quali “siamo europei” o “siamo italiani” ha sempre e solo voluto dire una casa, un paese, una terra da lasciare per provare a sopravvivere.

Quei tanti per cui al massimo avrebbe senso dire: Ich bin ein Auswanderer.

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