Per un mecenatismo pubblico

“Con la cultura non si mangia”. Ricordate queste parole? Non avevo dubbi. E forse ricorderete anche le mille e mille dotte e serie spiegazioni di come, invece, con la cultura si possa mangiare, gli esempi portati a giustificare queste tesi e le pagine di giornali e le migliaia di parole spese nel dimostrarle. Certo che con la cultura si può fare occupazione, generare reddito, determinare crescita economica; certamente con la cultura si può mangiare: chi lo nega. A parte l’autore di quella frase e i suoi sodali, off course.

Però, l’effetto peggiore e maggiormente deleterio che frasi come quella generano sta proprio nello spostare il centro dell’attenzione. Dire “con la cultura non si mangia” costringe tutti gli altri a tentare di dimostrare il contrario, a far vedere come con essa e di essa si possa mangiare. Bene, ma non basta.

I musei, gli spettacoli, i libri, le biblioteche, le mostre, gli eventi culturali, generano ricchezza. Tutto vero, tutto giusto. Ma quella è la valorizzazione del patrimonio culturale, non la cultura. Certamente, per semplificare, possiamo chiamare “cultura” entrambe le facce e le diversificazioni dell’argomento. E quindi, un ente, un’associazione, un’impresa culturale, spesso si occuperanno di promozione della cultura e non esclusivamente di sostegno alla sua produzione.

Non di rado, le due cose sono connesse; promuovendola si stimola e si sostiene anche la produzione della cultura. Ma non sempre.

È chiaro che il privato, sia esso impresa o associazione, ha interesse a promuovere una cultura che, in un certo senso, dia “da mangiare”, che faccia numeri, che sia misurabile sotto le categorie dell’economico, del “si mangia”, appunto. Ed è anche giusto.

Lasciando però solo a questi attori il compito di sostenere indirettamente la cultura attraverso la sua promozione si rischia di incentrare tutta l’attenzione e le possibilità di sostegno sulla valorizzazione.

Purtroppo, però, sembra essere questo il modo privilegiato (l’unico?) in cui le istituzioni e la politica pensano alla cultura. Prendiamo il Governo in carica. Il salto di qualità rispetto al recente passato è abissale; negarlo sarebbe folle. Basta dire che al ministero per i beni e le attività culturali ai tempi di Berlusconi c’era Sandro Bondi, oggi Massimo Bray. Ma anche quella nomina tradisce una volontà, come dire, “consumistica” della cultura. Bray è uomo colto e raffinato, certo, ma la sua nomina, più che far pensare al suo lavoro di storico, rimanda al suo ruolo di presidente del consiglio di amministrazione della fondazione “Notte della Taranta”, quella che organizza il noto festival di Meplignano, cioè ad un lavoro di promozione e valorizzazione in chiave turistica ed economica tout court del patrimonio culturale esistente.

Già fin nelle parole di Letta all’atto del suo insediamento il posto che riservato alla cultura era un posto laterale, quasi in disparte, mentre veniva enfatizzato il turismo (anche qui, “vendendo” il patrimonio italiano come fosse il marketing di un prodotto qualsiasi e non quello di un “capitale” che nasce dalle modalità dell’abitare, dalle specificità, anche dalle contraddizioni e dalle difficoltà e, perché no, dalla miseria, con cui si sono confrontate le generazioni che nei secoli hanno accumulato quell’inestimabile tesoro). Infatti, secondo Letta, come disse all’atto di ricevere la prima fiducia dalle Camere, è necessario “rilanciare il turismo e attrarre investimenti” (farli, quegli investimenti, mai, evidentemente), e “puntare sulle nuove imprese e industrie culturali e creative”.

In quest’ottica si inserisce una discussione fondamentale. Se anche la cultura, come tutto il resto, serve e trova giustificazione solo se riesce a generare ricchezza, a far reddito, a dare occupazione (non ripeto più quanto tutto questo sia importante), si rischia di cercare unicamente fra questi paletti la sua giustificazione. E si rischia di passare ad una valutazione della cultura esclusivamente sotto quei metri. Una metodologia che troverebbe di sicuro alleati fra il capitale e nell’economia, ma che, probabilmente, smarrisce il senso di un fare cultura che sia slegato dalla contingenza del “vendere cultura”. Non voglio banalizzare il concetto, arrivando a dire che, camminando su quel piano, il valore culturale lo si rileverebbe solamente dagli incassi al botteghino o in libreria; tuttavia, quello di limitare il sostegno alla cultura solo relativamente a quei progetti che possono trovare una immediata spendibilità di mercato è un rischio che si corre. Invece, il sostegno alla produzione culturale dovrebbe essere anche capace di slegarsi da quelle logiche direttamente monetizzabili.

Una funzione che oggi, però, non è possibile pensare di appaltare al privato, che non lo farebbe, a parte piccoli casi di mecenatismo illuminato, e che per tale motivo deve rimanere pubblica.

È questo un tema molto antico nella storia della civiltà europea. Già nel 1792, nel dibattito all’interno della Convenzione Nazionale che stava redigendo la nuova Costituzione francese, Condorcet si poneva il problema della disponibilità delle risorse per le attività non immediatamente redditizie. L’argomento del dibattere in quell’occasione fu quello dei privilegi di caccia, e ci si chiedeva di chi dovesse diventare quel diritto al diletto una volta abolita la nobiltà. Ma era ovvio, in quella sede, che il discorso si allargava a tutto ciò che ricadesse nella stessa ottica, cioè che si estendesse alla questione generale del chi ereditava il diritto, fino ad allora appannaggio dell’aristocrazia, di “buttare via i soldi” nei teatri, per i quadri, nelle opere letterarie, nelle costruzioni architettoniche. E la risposta fu: il popolo sovrano è l’erede del principe e del nobile.

Una valutazione particolare, che diede il via in Francia alla grande stagione dei musei pubblici, vale a dire al passaggio della “collezione” da diritto esclusivo e privato del principe in eredità collettiva e comune del popolo. In Italia una riflessione così ampia non c’è mai stata, non è mai stato chiaro a chi spettasse il diritto-dovere al sostegno di quella produzione di cultura che è sì un “buttare via i soldi”, nel senso che non poteva essere immediatamente monetizzato come investimento, ma che è strettamente connesso alle fondamenta del più ampio diritto di cittadinanza.

Perché il discorso dei deputati rivoluzionari parigini vedeva, nel sottrarre il dominio sulla produzione della cultura ai nobili e sulla possibilità aperta a tutti del suo godimento, un insostituibile fattore di uguaglianza, ecco perché diventava imperativo e pregnante stabilire e chiarire chi dovesse sostenerla, con quali risorse ed attraverso quali metodologie.

Oggi non ci si può più sottrarre dal dare una risposta a quelle domande, come non si può evitare il problema adducendo la scusa delle “ben altre priorità” in tempo di crisi: perché è proprio quando si è in crisi (quale crisi maggiore poteva esserci della sostituzione di un regime con un altro e nel pieno di un processo rivoluzionario?) che bisogna aver il coraggio di porsi le sfide più importanti, come appunto quella di innescare un meccanismo forte e solido di sostegno e finanziamento dei modi e delle forme della produzione culturale.

Tutto ciò, certo, è impegnativo. Pur nondimeno, questa è la strada e non può essere che pubblica e slegata dall’immediata valorizzazione economica. Con un coraggio politico che vada oltre il contingente, che sia capace di investire sulla formazione, prima, e sul sostegno culturale dei cittadini, poi, e che determini quelle condizioni per far sì che ci possa essere chi sarà capace di produrre ancora e arricchire e accrescere ulteriormente quel patrimonio di cui vantiamo il primato. Altrimenti, ci ritroveremo ad archiviare quello che già c’è, impacchettarlo e venderlo a quelli che potranno permetterselo.

Un lavoro, quest’ultimo, che può c’entrare col fare industria, ma non con il ruolo del pubblico, che deve essere teso a fare “cittadinanza”, ed è per tale motivo che proprio questo diventa l’unico soggetto in grado di un vero sostegno della cultura, che diviene, in una logica vera di riappropriazione, anzi, di “appropriazione” da parte dei cittadini, compimento del diritto di cittadinanza e fattore di uguaglianza. Un’uguaglianza che, come pensava Lombardi, non si realizza nella cilindrata dell’auto posseduta, ma nel possesso delle capacità diffusa di apprezzare Dante o Picasso, Mozart o Brunelleschi, di conoscere e capire la cultura, anche per produrne di nuova.

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