Il triste simulacro della potenza

C’è un filo sottile che lega la violenza sulle donne, l’omofobia, il razzismo. Ed è un filo tutto al maschile. Come tutte al maschile sono sempre state la guerra, la passione per le armi, la tensione alla supremazia sull’altro.

È sconsolante ammetterlo, ancora di più da uomo, ma davvero nella nostra epoca arrogante c’è una emergente questione maschile. Un maschio, però, disperato e angosciato, che trova la sua giustificazione solo nel sopruso sul prossimo. In quello, egli vive la propria fede imperitura nella potenza che si pensa affermatrice e dominatrice, ma che è solo un triste simulacro. E quando si svela per quello che è, allora condanna alla follia, alla pazzia che nasce dall’impotenza, dall’incapacità di esercitare il proprio dominio sulle cose e nel tempo.

Perché, infatti, il germe di quella insanità è nella malintesa idea di potenza individuale scambiata per dominio sugli altri e sul mondo, e non come capacità dell’affermare in esso e fra loro il proprio essere. C’è, in questo vivere cupo le pulsioni individuali, una follia che non cede al prospettivismo, incapace di modificare i propri punti di vista e di relazione con gli altri e che intende questo modo rigidamente precluso al divenire, questo stallo cieco e sordo, il segno del potere, mentre è invece solamente debolezza e paura del mutare incessante lungo la linea del tempo.

In tutto questo scorrere degli eventi al di fuori del proprio potere individuale, il singolo vive una forma di schizofrenia e di ambivalenza: da un lato, festeggia il risultato dell’affermarsi di un potere senza limiti, e senza scrupoli, che sopprime anche lui; dall’altro, si consuma nella contemplazione rabbiosa e sterile dell’essere fuori da quel processo, del non riuscire a farne parte. E se questa rabbia è innocua nei confronti del potere stesso, diventa capace di rivalse verso chi è visto come soggetto debole.

Rimanere fuori di quel potere che si manifesta solo come affermazione personale, prestigio, somma di averi, genera frustrazioni difficilmente gestibili in chi solo in quel modo intende il proprio essere individuo, per sé e per gli altri. Un’impotenza che diventa pazzia, e che si scarica, senza senso o ragione, sul prossimo più fragile sotto il punto di vista in cui far falere la propria forza che si fa violenza, replicando in scala quello che si sente come il torto subito dal potere più grande. La compagna che si intende come propria e di cui si vive l’indipendenza come offesa al dominio, l’omosessuale che sfida il personale ordine delle cose, lo straniero o il senza patria che mina il particolare concetto di organizzazione del mondo e nel mondo: tutto questo genera nell’aspirante potente/dominatore un sentimento rabbioso, che esplode in quei gesti, parole e immagini che la cronaca ci racconta quotidianamente.

E perché sono (quasi) sempre  maschi quelli in cui tutto ciò si manifesta in quei modi anche violenti? Perché è proprio quel maschio che scambia la potenza col dominio e con l’avere la figura più sconsolante prodotta dalla cultura occidentale e dal capitalismo consumistico. Perché è lui quello che più di altri è stato nutrito attraverso le forme della cattura dei desideri e dei desideranti, lui quello a cui tutto dice “devi avere, devi dominare”, lui quello che “non deve chiedere mai”: maschio, eterosessuale, autoctono. Ed è la libertà degli individui al di fuori di quelle categorie che non riescono a sopportare i più deboli della prima. Sì, i più deboli, ma non per questo innocenti o da comprendere.

Ha ragione, ripeto, chi dice che c’è una questione maschile in questo nostro Paese e in questo nostro tempo. C’è una questione di educazione, che parte dalle famiglie e dalle scuole, ma che non tira fuori dalle responsabilità ogni forma del sapere, della cultura, della comunicazione, dell’intera società. Quella società che usa il corpo delle donne e ne promette l’offerta illimitata e senza condizioni per vendere i suoi prodotti e far girare la propria economia. Quella società che, promettendo quei corpi nell’accesso a quei beni e legando questi all’affermazione individuale, rende quest’ultima patrimonio esclusivo dell’eterosessualità maschile. Quella società che, ancora in sé stessa e per sé stessa chiusa, in quel meccanismo di costruzione del consenso culturale, non dimentica mai di essere comunità etnica, affermando, nel proprio vendere il mito dell’affermazione, il valore autentico di una tradizione autoctona. E se quell’affermazione la si vede in chi quei cliché assurdamente ripetuti in ogni dove non li rispetta, per i meno capaci di confrontarsi con l’altro la contraddizione è ingestibile.

È per questo che tanti di quegli episodi sono compiuti non da devianti conclamati, ma dai tanti “è sempre stato un brav’uomo, un tipo normale”. Ed è appunto sul concetto di “tipo normale” che si deve cominciare a lavorare.

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