La politica ai tempi della precarietà

È come vivere il tempo d’un autunno perenne. Una stagione in cui, simili alle foglie di Ungaretti, si rischia di cadere ad ogni refolo di vento. Trasportati da correnti e spinti dagli eventi, non si riesce ad avere di sé un’immagine compiuta, definita, fissa. Si è davvero immersi in quel fluire continuo della modernità descritto da Bauman.

Ogni aspetto della società è vinto da questo morbo dell’indefinitezza: l’organizzazione del lavoro, la progettazione dei destini individuali, finanche i rapporti interpersonali. Tutti vittime dello scorrere inarrestabile, tutti presi nel vortice d’un correre che, per essere seguito, costringe ad una forma di nomadismo sradicato, senza nemmeno il legame e il conforto della millenaria tradizione dei cittadini del mondo.

In questo maelstrom onnivoro, ogni cosa dismette i confini ed i significati che gli erano dati. Anche la crisi che vivono oggi i partiti e la politica, la delegittimazione delle istituzioni, la stessa debolezza dei sindacati, sono in un certo senso figlie dell’affermarsi della società del repentino trascorrere. Le organizzazioni della politica e del lavoro su cui si imperniavano e si collocavano le categorie sociali, faticano a ritrovare un senso nella situazione attuale.

Banalizzo con un esempio: prendiamo le organizzazioni sindacali. Nell’epoca del lavoro precario, perché iscriversi ad un sindacato? E a quale categoria? L’operatore di call center per sei mesi, poi cassiere nel supermercato, e ancora magazziniere nella fabbrica metalmeccanica, e spedizioniere nell’azienda agroalimentare in un solo anno, a quale categoria appartiene? E perché dovrebbe sottoscrivere una tessera che durerà di più del suo contratto di lavoro?

Per la politica non è diverso. Pensiamo ai partiti. Erano nati intorno ad un modello di società che si definiva anche sui posti che in essa si occupavano. Ma se la precarietà è la cifra dell’esistere e lo spostamento continuo la dimensione del vivere, di che cosa stiamo parlando? Vivrò il territorio in cui mi trovo tanto a lungo da potermi interessare delle sue problematiche politiche e amministrative? Se oggi lavoro in una città, chi mi assicura che domani non dovrò spostarmi in un’altra? E quanto m’interessa, allora, chi ne sarà il sindaco, il rappresentante nelle istituzioni?

Nemmeno il programma politico, in una logica del genere, ha più senso. Ancor meno ne ha se proiettato nel lungo periodo. Qual è il partito che fa per me? Qual è il soggetto politico che tutela meglio i miei interessi, se io non posso nemmeno sapere quali saranno i miei interessi da qui a sei mesi? Voglio un partito che stia vicino alle problematiche dei lavoratori dipendenti, perché oggi ho un contrato da operaio, oppure uno che difenda le partite Iva e i piccoli imprenditori, perché domani, forse, dovrò aprire un negozio? Se nessun partito mi dice che avrò un posto ed un ruolo nel mondo, a quale dovrò rivolgere la mia attenzione?

Temo, anzi, che proprio in quest’ultima domanda sia da ricercare il senso reale dello smarrimento. La politica ha finito di essere percepita come centrale nella vita spaesata dei nuovi “senza fissa dimora” della società e del mondo odierni. E ciò perché, semplicemente, ha evitato di affrontare la questione della dimensione ultima del tempo attuale: la precarietà. O meglio, l’ha affrontata come se questa fosse indiscutibile, frutto dei movimenti millenari della terra, fenomeno naturale e non risultato di un’organizzazione dell’economia che si è ricercata e voluta. Dandola come condanna definitiva della vita di ognuno, tutto il resto è passato in secondo piano: la politica per prima.

Ecco, se il punto è questo, il come lo si affronta segna la differenza. Lo si può accettare con giubilo o subire con sofferenza, senza però provare a cambiarlo, e quindi, al massimo, pensare ad una politica “in sintonia” col mondo attuale. O si può provare a fargli resistenza, cercando di costruire, con la politica, isole di terraferma dove ridiscutere dalle basi quel modello organizzativo, mettendolo in discussione e cercando di cambiarlo.

Nel guado, però, è difficile stare; impossibile, addirittura, per una forza politica di sinistra.

Perché nel mondo che scorre, i salvati gioiranno della loro condizione, ricercando chi li rassicuri nelle loro posizioni, e quindi una figura conservatrice, o chi s’affacci sulla scena come soggetto rampante e di successo, che non metta in discussione il sistema ma incarni in sé le possibilità di ottenere in esso il successo ricercato, e quindi, a quel punto, poco importa se di sé esso dirà d’essere conservatore o innovatore; l’importante è che non si ponga come sovvertitore dello schema che li vede salvati.

I sommersi, invece, non ritrovando nei discorsi sentiti le note che vorrebbero ascoltare, urleranno la propria rabbia, affidandosi a chi prometta, almeno, di fare ai legislatori quello che le leggi han fatto loro, renderli precari e meno ricchi, oppure faranno altro, impegnati a cercare appigli per non affogare fra i flutti incessanti del fiume in piena in cui sono stati gettati.

Che sia qui la differenza? Che sia questa la prossima sfida per chi vorrà porsi come soggetto politico di sinistra? Adeguarsi alla società che scorre e tutto trascina con sé, rassegnarsi a cercare ritagli di apprezzamento fra i salvati, intercettandoli al meglio con le migliori figure di successo; o resistere, cercare un’alternativa, ricostruire una narrazione per un mondo diverso, sconfiggere con un pensiero rivolto ad un orizzonte futuro l’eterno presente pieno di scenari transeunti, immaginare e perseguire un’altra idea di società, con qualche minore privilegio per i salvati, ma con scialuppe più grandi e la speranza di uno scampolo di terra, di un porto sicuro anche per i sommersi?

Altre domande lente in un mondo che corre veloce.

Questa voce è stata pubblicata in economia - articoli, filosofia - articoli, libertà di espressione, politica e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

1 risposta a La politica ai tempi della precarietà

  1. Nanni errichiello scrive:

    Probabilmente entrano in gioco i ruoli, sia dal punto di vista etico che logistico. La politica dovrebbe tornare ad occuparsi di politica, l’imprenditoria di produzione di beni con giusto ritorno economico, il sindacato dei lavoratori, i lavoratori di lavoro ed i cittadini dell’essere cittadini. Potra’ sembrare banale, ma io penso che ciascuno di questi ruoli oggi viene usato a proprio piacimento, senza regole e senza etica. La politica dovrebbe occuparsi dello snellimento e la facilitazione dell’accesso alle regole che dovrebbero evitare sperequazioni tra classi e fornire gli strumenti per valorizzare le capacita’ oggettive di chi lavora per il bene comune, fornendo quando necessario la protezione a debolezze transitorie, senza ammiccare all’industria di un certo tipo o alla finanza, ovviamente a proprio tornaconto. Gli imprenditori dovrebbero occuparsi di cio’ che sanno fare meglio, produrre, senza amicizie pericolose che portano ad arricchimenti facili ed all’esportazione di capitali invece che di merci o servizi, salvo poi avere imprese eccellenti che falliscono perche’ i capitali necessari allo sviluppo sono stati regalati ai “caimani”…………… Non mi dilungo, insomma, alla fine, forse basterebbe un ritorno alla normalita’.

Lascia un commento